Mi sono perso nel
guardare le foto dei festeggiamenti dei curdi, l’altro giorno. Mi
sono perso nei loro sorrisi, nei volti puliti, nei capelli sciolti e
nei pugni sollevati al vento, contro un cielo nero, buio, di una
notte illuminata a giorno.
Non mi sono sentito
rincuorato o felice quando ho letto la notizia di Kobane libera; lo
sono stato quando ho visto queste foto – quando ai vincitori, ho
potuto associare un volto. E che bellezza c’era in questo volto. Un
volto di donna, giovane; un volto finalmente libero – com’è
finalmente libera Kobane – dall’ansia e dallo stress,
ringiovanito della contentezza della vittoria, rilassato come non lo
era da mesi.
La notizia della
liberazione di Kobane ci ha raggiunti qualche ora dopo la vittoria di
Tsipras in Grecia. E per questo, dice qualcuno, è passata un po’
in sordina. I pochi quotidiani che ne hanno parlato hanno l’hanno
ridotta a niente, a un passaggio necessario, a una svolta attesa e
non così tanto sperata. Kobane libera è stata solo terra tolta
all’Isis, per questi quotidiani. Eppure, e lo sanno bene i curdi,
non è così. Kobane libera segna la vittoria dell’umanità,
un’umanità che riprende fiato dalla pesantezza della solitudine e
dell’estremismo. Abbandonata da tutti, ricordata da pochi,
celebrata dai più deboli.
Non sono un
attivista e forse non lo sarò mai. Non sono nemmeno uno dei
sostenitori della prima ora, eppure anche io mi sono innamorato di
Kobane, delle donne di Kobane, le più belle del mondo. Belle di una
bellezza nuova, rigenerata, scaturita come una fiamma
dall’incontenibile gioia di ritornare per le strade della propria
città, da donne libere.
L’esempio virtuoso
di Kobane, piccolo e allo stesso tempo grande, è anch’esso passato
in sordina. Tra chi ne ha parlato riducendolo a passaggio forzato
della cronaca e chi – forse esagerando, forse no – l’ha
definito modello vincente, nuovo e moderno (la parità assoluta tra
uomini e donne, nessuna discriminazione, nessuna differenza) ha fatto
da cappello ad articoli e da ciccia agli editoriali. È stata
l’ambientazione perfetta per una storia che dopo i primi mesi di
interesse internazionale è caduta nel dimenticatoio. I giornalisti
rimasti sul posto sono diminuiti: alla resistenza curda, è stato
“preferito” l’attentato francese. Perché parlare di più cose,
a una platea costantemente bombardata da input e informazioni com’è
quella che popola il web e legge i giornali oggi, è un azzardo. E si
rischierebbe di perdere l’attenzione.
Anche per questo la
vittoria delle donne di Kobane è stata più bella: perché hanno
lottato quanto e più degli uomini, e sono state protagoniste del
loro destino e della loro vita. Prima schiacciate, allontanate a
forza dalle loro case, costrette a vedere i loro conquistatori
padroni nella loro città attraverso le fessure della rete metallica
alzata sul confine, e poi libere, trionfatrici, sorridenti.
Le donne di Kobane
sono le più belle del mondo, e in quelle foto di ieri, del loro
trionfo, lo resteranno per sempre. Simboli di una lotta povera, del
più debole contro il più forte, della giustizia e della libertà
contro l’estremismo cieco e nero; l’urlo di dolore di una città,
di una nazione, di un popolo rimasto inascoltato, e che da solo, non
per miracolo ma per la forza di coloro che hanno resistito e
combattuto, si è fatto largo tra le macerie e le strade abbandonate,
tra i razzi, i proiettili, la morte. Il sorriso di quelle donne è un
sorriso che sa di vita.
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