Sono
appena il 15% le studentesse italiane iscritte a corsi di
informatica. La programmazione non era materia per donne, ma qualcuno
cerca ora di fare la differenza. E l'Italia è seconda al mondo per
numero di eventi di formazione organizzati, rivolti soprattutto a più
piccoli. Poca teoria e molta pratica, meglio se in gruppo
GENDER
GAP INFORMATICO
«Lavoro
da tre anni come programmatrice e sì, qualche battutina sessista c’è
sempre. Ma non mi scoraggio: so che è solo questione di tempo. E di
vincere sul campo, mostrando le mie competenze», ammette Stefania
Gabrielli, 31 anni, marchigiana trasferita a Bologna per studiare
informatica. Per realizzare quello che era un sogno fin da bambina,
ha lavorato un anno per raccogliere i soldi che servivano
all’iscrizione universitaria.
Non
si scappa: se già in professioni dove lo squilibrio di genere è
minore le donne sono costrette a dimostrare qualcosa in più dei
colleghi uomini, nel campo dell’informatica è praticamente un
obbligo. Lo riassume bene Marta Mulas, sociologa che ha trasformato
la sua tesi di laurea nell’ebook Maschiacci. La costruzione del
genere nel lavoro informatico. «Ho intervistato molte donne
informatiche tra Milano, Bologna e Cagliari e sono emersi elementi
comuni. La diffidenza sulle loro capacità tecniche, che le porta a
lavorare di più, stare in ufficio più a lungo. E la necessità di
giustificare una scelta così particolare: molte mi hanno detto che
fin da piccole erano appassionate di giochi e passatempi maschili,
quasi ad ammettere di essere un po’ “strane”», racconta
l’autrice.
PER
CAMBIARE, PARTIAMO DAI BAMBINI
Una
situazione che si può riequilibrare solo con un maggior numero di
donne nel settore. Perché la realtà sta cambiando, ma lentamente:
secondo i dati di Almalaurea, le studentesse iscritte a corsi di
laurea del gruppo disciplinare scientifico sono il 34,8% ma la
percentuale crolla per la laurea specifica in scienze tecnologiche e
informatiche: 15,2%. Solo 29 laureate su 1.000 ottengono un diploma
universitario di primo livello nelle tecnologie dell'informazione e
della comunicazione (contro 95 uomini su 1.000) e solo 4 su 1.000
lavorano effettivamente nel settore. Non parliamo di fare carriera:
il 19,2% degli addetti del settore ICT ha un capo donna, contro il
45,2% in altri settori (dati dalla ricerca della Commissione Europea
Women active in the ICT sector, 2013).
Forse
anche per questo molte programmatrici, tra cui la stessa Gabrielli,
sono mentor di realtà come CoderDojo, l’associazione che insegna
ai bambini a programmare fin dai 7 anni. Spiega Barbara Laura Alaimo,
co-fondatrice di CoderDojo Milano, pedagogista e madre di tre figli:
«Per scelta, i nostri eventi sono aperti a maschi e femmine;
pensiamo si possa entrare nel coding senza differenze di genere. Ma i
dati ci dicono che fino agli 11 anni le bambine sono il 30% dei
partecipanti. Dopo, il rapporto diventa di 1 a 5. Sarà interessante
vedere se, negli anni, le ragazze aumenteranno, segno di
un’evoluzione nella società. Per quello che vediamo, il blocco è
sempre dei genitori, che pensano ai corsi di programmazione come a
cose “da maschi”. Le bambine in aula sono molto interessate e
prontissime ad assorbire la logica del pensiero computazionale, che è
utile in molte discipline, non solo per programmare».
LA
COSA PIÙ IMPORTANTE? CREARE DEI MODELLI POSITIVI
Non
si tratta di far diventare tutti programmatori, certo, ma di far
capire alla ragazze che una carriera in quel campo è possibile. Di
avere un effetto di apertura e aspirazione come quello creato da
Samantha Cristoforetti con la sua impresa spaziale, fatte le debite
differenze. «Posto che il codice dovrebbe essere ormai visto come
una lingua straniera, da inserire nei programmi ministeriali, il
focus qui è più la creazione di un role model. Bisogna spezzare lo
stereotipo che vede le ragazze indirizzate ancora e sempre verso
studi umanistici. Ogni azione che le diriga verso le discipline STEM
(acronimo inglese per science, technology, engineering, and
mathematics) può essere utile», aggiunge Francesca Maria
Montemagno, co-fondatrice di Pari o Dispare e nel coordinamento di
Wister la rete al femminile che fa parte degli Stati generali
dell’innovazione. E usa la parola magica: empowerment,
trasferimento di competenze da donna a donna.
Quello
che sta facendo Mariana Santos, visual storyteller e ricercatrice del
Knight Center for Journalists, con le sue Chicas Poderosas. Un
movimento per avvicinare le giornaliste dell’America Latina alla
tecnologia e dare loro strumenti innovativi per esprimersi. Con un
fiore sempre tra i capelli, gli abitini iperfemminili e una grinta
inesauribile, è l’esempio vivente di come si possano conciliare
competenze tradizionalmente maschili con il piacere di essere una
ragazza.
NIENTE
TEORIA, MA LEARNING BY DOING
Ma
come si insegna a programmare tentando allo stesso tempo di abbattere
il gender gap dell’ambiente informatico? «La lezione frontale non
aiuta, la teoria neppure. Il mentor deve essere a fianco dell’allievo
e a programmare si impara solo facendo, soprattutto in gruppo,
confrontandosi, cercando gli errori, riprovando», riassume Barbara
Laura Alaimo, che all’argomento ha dedicato un post molto letto e
molto condiviso, Le 7 regole d’oro del mentor.
«Si
insegna in modo semplice e divertente, proponendo modelli reali e
tangibili e raccontando, con esempi e immagini, che l’informatica è
già dentro le nostre vite, tutti i giorni», aggiunge Giorgia Di
Tommaso, 24 anni, laureanda in informatica alla Sapienza e coach per
la fondazione Mondo Digitale che a ottobre ha promosso una settimana
di coding nelle scuole con la collaborazione della statunitense Girls
Who Code. Girls Who Code vuole arrivare alla parità di genere nel
settore informatico entro il 2020, formando un milione di ragazze, e
per la settimana di full immersion romana ha inviato due insegnanti.
«L’entusiasmo e il carisma di Elizabeth Caudle e Ashley Gavin, le
due coach americane, ha contagiato tutte e il fatto che fossero così
giovani (27 e 26 anni) e già così competenti ha fatto scattare
l’identificazione. Le ragazze hanno capito immediatamente che c’è
un modo diverso di vivere la tecnologia, non solo l’utilizzo
passivo», aggiunge Di Tommaso. E lo hanno fatto in modo molto
personale: «Ho seguito anche sessioni di formazione miste»,
aggiunge Cecilia Stajano, coordinatrice per Mondo Digitale «e ho
notato che i maschi si sentono più sicuri, sentono il coding come il
loro campo, ma forse per questo procedono per schemi fissi. Le
ragazze, magari perché hanno meno aspettative, si buttano di più,
propongono soluzioni creative. Perché tutti i giovani, com’è
giusto, vogliono essere protagonisti. Con il coding possono dire la
loro, diventare parte di un processo e di un risultato. Si tratta di
un percorso di autoconsapevolezza; direi quasi che c'è qualcosa di
filosofico.»
D’altronde,
il codice è poesia, come recita il mantra di Wordpress e come
teorizzò nel lontano 2002 Richard Gabriel, ingegnere informatico e
ricercatore prima a Sun Mycrosistme e poi in Ibm, oltre che poeta.
Nel manifesto di Paul Graham, programmatore, si legge che i coder si
considerano artisti al pari di pittori e architetti. E nell’ultimo
libro dello scrittore di origini indiane Vikram Chandra Geek Sublime,
The Beauty of Code, the Code of Beauty si parla di codice tra
linguistica, arte e storia. Siamo ancora convinti che un’attività
del genere vada sbrigativamente etichettata come “da maschi”,
evocando stereotipi di nerd occhialuti?.
UN’ORA
DI CODICE PER CAMBIARE IL MONDO
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