I personaggi e le questioni aperte per leggere la mappa del nuovo
potere femminile in Italia. Il nostro viaggio nel presente (e nel
futuro) continua con un bilancio del tentativo di imporre un tetto di
presenza delle donne nei vari ambiti della vita pubblica e
professionale Ecco il risultato
Quando la creatività dialoga con l’impegno sociale il risultato è
la denuncia e lo svelamento. Invisibili sono le artiste di strada
fotografate da Marika Puicher. Dalle storie di “ordinaria
resistenza” (a Taranto) alla crisi economica documentata attraverso
scene familiari (in Sardegna ed Emilia), ai civili morti in Bosnia,
gli scatti in 35 millimetri di Puiker incontrano le donne che hanno
scelto un percorso artistico considerato esclusivamente maschile. Tra
loro Allegra Corbo (foto sopra), creatrice di Popup, festival
dell’arte underground ad Ancona. «Sono donne fuori dagli schemi,
hanno scelto la galleria d’arte più democratica e più grande del
mondo: la strada», dice Puiker, fotografa 35enne con un passato da
educatrice in una casa di accoglienza per donne e minori. «Per
vivere fanno le scenografe, le illustratrici o le graphic designer.
Ma per strada c’è una dimensione umana, di relazione con il
contesto e di interagire con le persone. La stessa emozione che ti dà
il reportage fotografico». Nonostante la street art non sia più
considerata solo vandalismo il loro lavoro resta spesso illegale. «Ho
cominciato a ritrarle affascinata dall’illegalità. Volevo capire
perché le donne sono meno degli uomini, perché restano sconosciute.
L’adrenalina di pennelli e secchi, spesso fughe, sotto i muri è
simile a quella di uno scatto per strada, anche non rubato. Ora tocca
a me, provare con un progetto di street art fotografico». Foto:
(Parallelozero)
La presenza femminile cresce dove è stata «forzata». Perché la
diversità non è ancora entrata nella routine delle aziende. Ma il
passaggio chiave è ora nel mondo della cultura, alla radice delle
novità
Il monopolio dei posti di potere maschili si è rotto. Ma il
cambiamento è ancora fragile.
Era il gennaio del 2008. In quelle settimane in Norvegia si stava
dibattendo della volontà del governo di chiudere (nel senso proprio
di non permettere più loro di operare) un centinaio di società che
non rispettavano la quota del 40% riservata per legge nei consigli di
amministrazione al genere meno rappresentato, le donne. Una decisione
molto drastica. Ci si domandò allora in Italia cosa sarebbe successo
alla nostra Borsa se si fossero applicati gli stessi criteri.
Verdetto senza scampo: non una delle società avrebbe potuto restare
in vita.
D’altra parte, il tetto del 40% era assolutamente «lunare» anche
per le società più avanzate o per quelle che avevano donne nella
famiglia proprietaria: le aziende quotate in Borsa viaggiavano in
quell’anno su una media di donne che superava di un soffio il 5% e
più della metà dei consigli di amministrazione esistenti era
composto esclusivamente da uomini.
Pensare di avvicinare un nome femminile a società centrali nella
vita economica e del potere italiano come Fiat, come Eni, come
Telecom o Mediobanca o come le grandi banche era solo un esercizio di
fantasia. Figurarsi la presidenza di un’autorità come la Consob,
che controlla la Borsa. La presidenza di Confindustria, nel 2008, era
stata il primo passo, rimasta a lungo una eccezione.
Terreno troppo ostico, l’economia e la finanza? La politica, che
dovrebbe essere più vicina alle persone e, dunque, anche alle donne,
non esprimeva un sentimento tanto diverso. Anzi. A fronte di una
popolazione composta per metà da donne, nel 2008 le parlamentari
italiane erano solo poco più di del 20% (con punte del 5% espresse
dal Friuli o dell’11 e rotti di Sicilia e Calabria) mentre le
parlamentari italiane in Europa avevano raggiunto quota 25% nel 2009
dopo aver galleggiato per diversi lustri tra il 10 e il 15%. Persino
la scuola, terreno ad altissimo tasso di femminilizzazione, trovava
una brusca caduta quando si arrivava all’università non riuscendo
a superare la soglia del 20% dei professori ordinari donna.
Era solo sei anni fa.
«Bisogna prendere coscienza del fatto che siamo entrati in una fase
nuova, che va consolidata ed estesa dove ancora ci sono resistenze —
dice Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento Statistiche
sociali dell’Istat —. Le donne stanno contando di più,
soprattutto nella politica, da cui è venuta una forte accelerazione
nel periodo più recente grazie a forme di regolamentazione o di
autoregolamentazione che hanno portato non solo più donne ma anche a
un ringiovanimento dei parlamentari».
Oggi le società quotate vedono la soglia del 20%, il Parlamento è
per un terzo composto di deputate e senatrici, le italiane elette nel
parlamento europeo sono a un passo dal 40%, il governo ha 8 ministre
su 16 e nelle università ci sono 5 rettrici su 79, poche in
percentuale ma ci sono. Quando alla Consob, è stata designata la
prima presidente donna (Anna Genovese). Così come all’Agenzia
delle entrate (Rossella Orlandi).
Una vera svolta, riconosce Monica Parrella, coordinatrice
dell’ufficio per gli interventi in materia di parità e pari
opportunità della Presidenza del consiglio. Ma una svolta ancora
fragile. Perché la presenza femminile cresce prevalentemente là
dove è stata forzata. Non a caso è nel 2009 che sono arrivati in
Parlamento i progetti di legge da cui è nata la Golfo-Mosca che nel
2011 ha introdotto in Italia le quote di genere. Poi la doppia
preferenza per le europee e le amministrative e in alcuni partiti.
«La presenza femminile non cresce in tutte le amministrazioni
pubbliche, anzi in alcuni casi sta diminuendo — scrive Sabbadini
nella presentazione del Rapporto sul benessere in Italia 2014,
diffuso nei giorni scorsi —, a conferma di quanto sia importante
garantire la presenza di meccanismi che condizionino il
raggiungimento di certe soglie. Quanto più azioni e risultati
innovativi, significativi e concreti corrisponderanno a questi
evidenti sommovimenti, tanto più questa evoluzione potrà incidere
sui valori di fiducia nelle istituzioni e negli altri, traducendosi
in una forte spinta al rinnovamento per il Paese».
Attenzione, insomma, a non tornare indietro. In passato è già
successo.
«Si è fatto molto — riconosce Maria Cristina Bombelli, fondatrice
di della società di consulenza Wise Growth e grande esperta di
carriere femminili — ma la diversità non è ancora entrata nella
routine delle aziende. Stiamo facendo una ricerca sulla motivazione e
sono convinta che emergerà che c’è un orgoglio da top manager di
dover lavorare e di perseguire determinati risultati con modalità
che non sono quelle femminili». Il «problema» sta nei modelli
organizzativi: totalizzanti nel tempo e «che non lasciano
possibilità di comportamenti diversi. Molte donne arrivate a un
certo punto si domandano “Ma chi me lo fa fare?”. E non parlo
solo di quando arriva un figlio, che acuisce sì le questioni, ma che
rappresenta un periodo sempre più breve in una vita che si allunga.
Sono le modalità di lavoro che non corrispondono tra uomini e donne.
Tra l’altro, se avessimo un Pil elevato si potrebbe capire, ma
siccome non è così forse bisogna usare leve diverse».
Proprio perché la sfera culturale è quella che poi, in definitiva,
domina tutto, Maurizio Ferrera, professore ordinario di Scienza
politica a Milano, sottolinea come negativo il fatto che mentre i
numeri mostrano un progresso evidente in tema di presenza di genere,
si senta la mancanza della presenza femminile nella cultura
«importante per il potere ideologico che può esprimere».
Ferrera, che nel 2008 ha dato alle stampe quello che è una sorta di
manifesto del lavoro femminile (Fattore D – Perché il lavoro delle
donne farà crescere l’Italia) incalza le attuali ministre: «Mi
stupisce che in questa nuova congiuntura politica, che sarebbe più
favorevole alla politica per le donne, non se ne parli nemmeno. In
Germania — ricorda — il riorientamento è stato frutto
dell’alleanza di due politiche come Ursula von der Leyden, della
Cdu, e come Renate Schmidt, socialdemocratica, spalleggiate dalla
cancelliera Merkel».
L’obiettivo di questi sei anni? Non certo la sostituzione di un
nome femminile a uno maschile, di un monopolio all’altro, ma l’uso
di tutti i talenti. Non è un caso che l’accelerazione sia avvenuta
proprio negli anni della crisi economica peggiore. Vertici con una
varietà di punti di vista e di età dovrebbero aiutare a modificare
le organizzazioni. E finalmente rompere quello che è il vero grande
problema italiano: il tasso di occupazione femminile. Sempre
inchiodato al 46 e virgola. Eppure, conclude Ferrera, è una cosa
ormai così scontata che più donne al lavoro produce un aumento del
Pil, che si studia nei primi anni di università.
I numeri
Le società quotate
Dal 5,2% di presenza femminile nel 2008 sono arrivate al 18% a fine
2013. Con le assemblee della scorsa primavera si prevede un salto
oltre il 20%. Designata una donna alla presidenza Consob.
Le società pubbliche
Dal 4% di donne nei cda sono arrivate al 17,2%. Nelle società non
quotate che hanno già rinnovato il consiglio si è saliti al 23,8%.
Presidenti donne per quattro gruppi pubblici (Eni, Enel, Poste e
Terna). Nominata una presidente per l’Agenzia delle entrate.
La politica
Otto ministre su 16, 30,7% di parlamentari italiane (dal 20,3%),
38,9% di parlamentari in Europa (dal 25%).
Le organizzazioni
Prima segretaria generale per la Cgil (nel 2010). Confindustria: 3
vicepresidenti su 10, 1 presidente di comitato tecnico su 4, una
direttrice generale.
Le prefette
Sono arrivate al 40% (erano al 33% nel 2010).
Nessun commento:
Posta un commento