«Quando
comunicai a mio padre la mia intenzione di studiare architettura
invitò a cena un amico architetto (uomo), che mi disse: “Una
architetto donna? Buona idea. Potrà essere brava a disegnare cucine,
perché le donne sono più pratiche”». Invece Odile Decq ha
progettato banche (la Popolaire de l’Ouest a Rennes, il suo primo
incarico importante, nel 1990, che le portò molti premi e
pubblicazioni), musei (il Macro di Roma e il Frac di Rennes),
ristoranti (quello dell’Opera Garnier di Parigi), padiglioni
fieristici (a Lione)…. Versatilità che le è valsa il titolo di
«Designer dell’anno», conferitole nel 2013 da Maison&Object,
e il premio «Prix Femme Architecte» come migliore donna architetto
di Francia. Una vera archistar.
Come
è riuscita a vincere le resistenze paterne e quelle di chi non
credeva che potesse diventare una progettista? «Se tuo padre ti dice
“Non è un mestiere per donne” nasce subito la sfida». Che Odile
Decq ha vinto. «Non sono sicura di esserci riuscita. Certo, so di
essere diventata un’architetta, ma è un processo in continua
evoluzione», dice con occhi sbarazzini cerchiati di nero,
incastonati in una psichedelica acconciatura di capelli neri (il suo
colore preferito).
Un’evoluzione
ancora lenta, che pochi passi in avanti ha portato nell’inclusione
femminile, anche in una professione che vanta da tempo illustri nomi
di donne. «Quando cominciai c’era una donna ogni dieci architetti
registrati in Francia. Erano i primi anni Ottanta. Oggi sono ragazze
più della metà degli studenti di architettura, una percentuale che
in Francia come negli altri Paesi scende sotto al 30 per cento di
donne tra chi esercita la professione e non arriva al 10 per cento
dei titolari di studi». Ecco perché Odile Decq crede molto
nell’arcVision Prize – Women and Architecture, il premio
internazionale riservato alle architette promosso dal gruppo
Italcementi che quest’anno, per la terza edizione, collabora con
WE-Women for Expo.
«Vogliamo
che le donne diventino autrici dei loro lavori, responsabili dei loro
progetti – sintetizza l’architetta – acquistando più fiducia
in se stesse. C’è bisogno di visibilità anche per le progettiste
affermate, per questo è importante che a promuovere questo
riconoscimento, l’unico a livello internazionale, sia un grande
gruppo industriale». La portoghese Ines Lobo, premiata l’anno
scorso, ha ricevuto l’incarico di rifare il look alla piazza della
stazione di Bergamo.
Ma
si vede se a progettare un edificio è stata una donna? «Ho sempre
pensato di no, nella convinzione che ogni architetto, maschio o uomo
che sia, è diverso dall’altro. Ora ho cambiato idea: le donne
pensano fin dall’inizio alla vivibilità, mentre gli uomini di
solito guardano subito alla forma. Ma diranno che mi sbaglio».
Diranno che Odile sbaglia anche quando dice che il problema non è
delle donne, ma degli uomini. «Che hanno paura quando sentono di
avere di fronte una donna forte». Parità ancora lontana?
Il
valore aggiunto di quella «visione femminile capace di coniugare
tecnologia e ambiente, materiali e forma, stile ed efficienza nella
rigenerazione delle città e del territorio», evidenziata da Carlo
Pesenti, Consigliere delegato di Pesenti Group, sarà messo in primo
piano dal riconoscimento nato come costola della rivista arcVision.
«Un impegno coerente con il nostro impegno allo sviluppo industriale
non solo tecnologico, ma anche culturale e sociale», sottolinea
Pesenti.
“Non
premieremo l’opera più bella, né l’architetta più bella.
Premieremo – spiega il direttore scientifico di arcVision Prize
Stefano Casciani – la carriera di una progettista, un lavoro molto
duro, difficile, in cui l’estetica rappresenta un piccolissimo
coefficiente». Prima regola: le candidate devono presentare tra i
progetti almeno un’opera realizzata. «Rendering bellissimi,
soprattutto in Italia, spesso restano soltanto rendering», commenta
Casciani.
A
valutare l’impatto sociale dei progetti è una giuria di dieci
donne. Cinque le architette: Odile Decq, appunto; Yvonne Farrell,
cofondatrice dello studio di Dublino Grafton Architects; Louisa
Hutton, socia fondatrice e direttrice di Suer
bruch Hutton e visiting
professor alla scuola di design di Harvard; Martha Thorne, direttrice
esecutiva del premio Pritzker per l’Architettura e vicepresidente
della Scuola di Architettura e Design IE di Madrid; Benedetta
Tagliabue, l’unica italiana, ma attiva a Barcellona. E cinque
professioniste nei settori più vari: l’imprenditrice Shaikha Al
Maskari; Vera Baboun, sindaco di Betlemme; l’attrice indiana
Suhasini Mani Ratnam; Samia Nkrumah, prima donna a presiedere un
partito politico nel Ghana; e, ultima arrivata, Daria Bignardi, tra
le Ambasciatrici di We – Women for Expo.
Venerdì
6 marzo a Bergamo la proclamazione della vincitrice arcVision Prize –
Women and Architecture, che riceverà un compenso di 50mila euro e
l’opportunità di un workshop nell’i.lab, il centro di ricerca e
innovazione di Italcementi Group a Bergamo.
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