giovedì 26 febbraio 2015

Coding: non è un lavoro per donne. Ne siamo certi? di stefania Medetti

Spesso ci arrivano per un cambio di carriera, ma sono ancora poche, se non pochissime, le esperte di linguaggi di programmazione. L’ostacolo, rivelano le star del settore, non è la conoscenza, ma la cultura dominante
Coding: non è un lavoro per donne. Ne siamo certi? Programmatore, sostantivo maschile singolare. Secondo una ricerca americana indipendente, le donne che si occupano di software a tempo pieno sono solo il 15% dei dipendenti di aziende tecnologiche. Nel mobile, i numeri sono ancora più esigui. Stando a “Q3 2012 Mobile Developer Report” dell’americana Appcelerator, le “coder” non superano il 4%. Insomma, per quanto le donne rappresentino oltre il 50% della forza lavoro negli Stati Uniti e quasi la metà dei “breadwinner”, una carriera nella galassia (ben pagata e coccolata) dell’informatica resta ancora un privilegio maschile. La matematica, in realtà, è solo una parte della storia: “È vero che le ragazze fra gli undici e i quattordici anni tendono a gettare la spugna quando il programma di matematica inizia a diventare difficile, ma in gioco c’è anche e soprattutto una questione di mentalità”, commenta dal suo studio in California Lynn Langit, data architect e technical trainer. Tendenzialmente, infatti, i maschi ricevono un’educazione che li stimola ad accettare gli insuccessi e a rimettersi in gioco. “Le ragazze, invece, sono educate a essere perfette e la ricerca di perfezione, molte volte, si trasforma in un ostacolo” (guarda il video che mostra come l'educazione crea discriminazioni di genere). Risultato, come la storia di Langit dimostra, le donne arrivano al coding di rimbalzo. “Ho iniziato a studiare il linguaggio di programmazione a 38 anni. All’epoca, lavoravo come manager di una catena di retail, ma ero immobilizzata a letto per una gravidanza a rischio e qualcuno mi aveva detto che il coding mi avrebbe permesso di decidere i miei tempi di lavoro e guadagnare bene”.
arriere contro ogni previsione
Cresciuta in un piccolo paese del North Dakota, Langit è stata la prima persona della sua famiglia a iscriversi all’università, da cui è uscita con una laurea in lingue. “Inaspettamente, è stato proprio questo titolo di studio ad avvicinarmi alla programmazione, perché ho pensato ai codici come a una nuova lingua da apprendere”. Da qui, il primo mito da sfatare: si può programmare anche senza conoscere la matematica. “La matematica ci rende programmatori migliori, ma la si può imparare a qualsiasi età”, assicura Langit che ha seguito 500 ore di lezione su Kahn Academy per colmare le lacune dei suoi studi. Anche Lise Bettany, una fra i developer mobile più conosciuti (ha firmato l’applicazione iOS Camera+), è approdata alla programmazione con una carriera avviata alle spalle: “Ho cominciato a lavorare come fotografa e modella, quindi avevo poca esperienza e molto da dimostrare, ma ero molto determinata a fare in modo di non essere ricordata solo per la mia faccia”. Bettany ha imparato tutto il possibile sulle app e si è occupata di ogni livello del processo di sviluppo per Camera+. “Ci sono voluti anni, però, per essere accettata nella comunità degli sviluppatori. Molte persone credono che, poiché sono una donna, sono responsabile solo per il marketing e la promozione”. Anche in Italia, conferma da Roma Francesca Corsini, 35 anni, programmatrice iOs: “Le donne non arrivano mai alla programmazione per scelta. Nel mio caso, per esempio, sono laureata in ingegneria meccanica e, nel 2009, ho accettato uno stage di programmazione che poi è diventato un vero e proprio lavoro”. 
I nemici della professione
Come Bettany ha avuto modo di sperimentare, il mondo del coding non accoglie le donne a braccia aperte. “Ci sono molti uomini e molto machismo”, sintetizza Corsini e Langit rincara la dose: “Per farcela, devi essere molto consapevole delle tue competenze. Nel mio caso, avendo superato la soglia dei cinquant’anni, devo anche fare i conti con lo stigma dell’età, in un mondo dominato da giovani”. Cosa ci vuole, dunque, per emergere? “Nel mobile, una grande idea ti porta fino a un certo punto. Le persone che hanno successo sono quelle che riescono ad aggregare i talenti migliori nel design, nel coding, UI e UX e producono qualcosa di cui la gente si innamora”, risponde Bettany. Da questo scenario di donne che ce la fanno, il nostro Paese è distante anni luce: “Le donne sono poche, pochissime”, conferma Davide Mauri, data architect e fondatore SolidQ. “È un problema culturale, forse anche di predisposizione naturale, ma fino a che non formiamo queste professionalità partendo dal basso, non lo sapremo mai”. 
In generale, il percorso più in salita resta quello nell’industria dei videogame, dove la cultura è pericolosamente e apertamente maschilista. Lo sa bene Brianna Wu, ex giornalista, sviluppatrice di videogame e co-fondatrice dello studio indipendente Giant Spacekat e autrice di “Revolution60”, un videogame per smartphone con protagoniste esclusivamente femminili. Pochi mesi fa, Wu è stata oggetto di minacce, stalking e doxxing (da “Dropping docs”, ovvero il rilascio di informazioni personali in rete da terze persone a scopo intimidatorio, ndr) da parte della comunità di sviluppatori di videogame: “C’è una fortissima corrente sessista che combatte le donne a colpi di minacce, bullismo e anonimato e il cui obiettivo è farle uscire dal giro”, ha raccontato a Msnbc Wu che, a differenza di altre colleghe, non ha nessuna intenzione di mettere le sue competenze di programmatore a disposizione di un altro mercato. “Bisogna cambiare la cultura, allargare la porta d’accesso alla programmazione, permettere a più persone che non siano solo ventenni immaturi di lavorare in questo settore”, conclude Langit che, ancora una volta, è passata all’azione con una library gratuita per insegnare linguaggi di programmazione agli studenti delle medie e ai loro professori in tutto il mondo.

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