In
una delle stagioni più difficili per la raccolta degli agrumi in
Calabria, centinaia di migranti vivono in capannoni abbandonati. Ma
qualcosa si muove. Una giovane donna va nei campi all’alba e spiega
ai raccoglitori i propri diritti. Sotto l’occhio dei caporali
Lo
scorso 11 dicembre ha organizzato un corteo aperto dallo striscione
«lavoratori italiani e immigrati insieme per chiedere diritti». Un
percorso breve per unire due luoghi simbolo: la tendopoli e il
capannone. Il primo è l’insediamento del ministero dell’Interno.
E' ormai al collasso, ci vivono circa mille africani, dieci per
tenda. Il secondo è un capannone abbandonato nella zona industriale
fantasma. Senza elettricità e bagni, è occupato dai braccianti da
qualche settimana. Un edificio senza infissi. Teli neri di plastica
impediscono al freddo di entrare. La scala interna non ha ringhiera.
Ma
una caduta non è il pericolo più grande. C'è il rischio di
incendi, dentro ci sono decine di bombole a gas. Basta una fiammella
e cento tende possono diventare torce. Insieme a coperte, cartoni,
stivali e valigie.
Da
una fontanella i lavoratori prendono l’acqua, ma probabilmente non
è potabile. Il rischio sanitario è alto, commentano gli operatori
di Emergency. «Ici c’est boutique», hanno scritto gli africani
all’ingresso del negozietto che vende di tutto. C’è chi
sopravvive con la fede, chi con l’ironia.
Celeste
ci introduce nel suo ufficio. Ha ridipinto da sola le pareti della
stanza. “Preferisco il giallo vivace, mette allegria”, spiega. Il
12 dicembre circa 150 migranti hanno partecipato a Reggio Calabria
allo sciopero generale. «Per la prima volta decine di braccianti non
sono andati al lavoro ma a una manifestazione per chiedere i loro
diritti». Con lo stesso spirito, fa sindacato di strada. Da queste
parti significa prendere un furgone e andare nei campi alle cinque di
mattina. In un territorio storicamente dominato dai clan. Poi
spiegare ai raccoglitori i propri diritti, sotto l’occhio dei
caporali. E dei commercianti che usano i loro servizi, come
dimostrano almeno quattro inchieste della magistratura. Il 18
dicembre, per la giornata del migrante, ha inviato Elisabeth Ndaye e
Coumba Ndong, sindacalisti senegalesi. Anche questo un modo di
globalizzare i diritti. La prossima sfida sarà quella delle
vertenze. Far recuperare i soldi dai furbi delle campagne. “Aspetto
quello che mi spetta da giorni e ogni volta mi dicono: richiama
domani”, ci dice Steven, gambiano, che vive con altri sette
compagni in una stanza del capannone.
Boubakar
viene invece da Dakar. O, meglio, da Livorno. Faceva l’ambulante e
viveva in un normale appartamento. Lo aspettano gli amici alla fine
dell’inverno. È vittima di una truffa, quella della sanatoria come
colf fittizio. Ma era l’unico modo di avere un permesso di
soggiorno. Lo Stato gli sottrae cento euro al mese per un pezzo di
carta. Anche lui vive al capannone.
I
migranti che arrivano in Calabria possono essere divisi in tre
categorie. I “rifugiati”, gli “operai” e i “napoletani”.
I primi provengono dall’“emergenza Nord Africa” del 2011. Da
anni vivono tra centri d’accoglienza, pratiche burocratiche per
l’asilo e lavoro in campagna. Gli operai lavoravano nelle fabbriche
del Nord e vivevano in normali appartamenti. Sono stati i primi a
pagare la crisi e a cercare nuove opportunità in agricoltura. Infine
tutti gli africani che vivono nell’area di Castel Volturno (che
chiamano genericamente “Napoli”) e si spostano stagionalmente per
le raccolte, ma anche per organizzare negozietti e servizi ai margini
dei ghetti. Nel complesso, secondo i dati di Emergency, due migranti
su tre hanno il permesso di soggiorno e dunque sono perfettamente
regolari.
Appena
arrivati, Rosarno sembra un paese come tanti. Invece è uno dei
luoghi dell’economia globale. Collegato con il Brasile, la Russia e
l’Africa. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi
commercianti sono gli attori di un gioco che rischia di saltare.
La
prima questione è l’embargo russo seguito alla guerra in Ucraina.
A Rosarno si producono due tipi di agrumi. Clementine per i
supermercati e arancia bionda da spremitura, quella che va a finire
nelle aranciate industriali.
I
mercati dell’Est, da qualche anno, sono uno sbocco importante per
il prodotto locale da banco. La chiusura del mercato russo è stato
un primo colpo. A questo si sono aggiunte le particolare condizioni
climatiche. Un inverno stranamente caldo. I produttori sono
esasperati, il Comune ha chiesto lo stato di calamità. Nel frattempo
sono più di duemila i braccianti africani arrivati per la raccolta,
molti dei quali qui per la prima volta. A loro si sommano bulgari e
rumeni, in genere residenti sul territorio.
“Coca
Cola è partner di Expo”, dice Coldiretti. “Usi le arance di
Rosarno e le paghi a prezzi equi”. “Quattro anni fa
l’amministratore delegato della multinazionale aveva incontrato
l’allora ministro dell’Agricoltura Mario Catania”, dice
all’Espresso Pietro Molinaro di Coldiretti. “Si era impegnato a
potenziare l’attività in Calabria e a remunerare la filiera. Non
ha fatto né l’uno né l’altro”.
Come
funziona la catena in tutta Italia? Il produttore agricolo raccoglie
le arance e le conferisce agli spremitori che, a loro volta, vendono
il succo concentrato alle tre multinazionali monopoliste. I segretari
della Cgil locale Celeste Logiacco e Nino Costantino evidenziano che
il calcolo economico non può ignorare i diritti di chi lavora.
Coldiretti si è detta d’accordo e ha coniato lo slogan “Coltiviamo
gli stessi interessi”, che unisce italiani e migranti. “Con meno
di 15 centesimi la filiera non è remunerativa”, evidenziano i
produttori. E chiedono alle grandi aziende il rispetto della legge.
Che prevede un minimo di frutta nelle bibite del 20%. Come se non
bastasse, nel porto di Gioia Tauro, spesso arriva illegalmente succo
brasiliano. Lo usano per “tagliare” quello locale.
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