Le logiche oppositive
non appartengono solo a quella che è stata considerata la “terribile
necessità” della guerra, del razzismo, del sessismo, dei
fondamentalismi di ogni specie, ma attraversa purtroppo tutte le
formazioni sociali, economiche, politiche e culturali, creando
divisioni fittizie e ostilità immaginarie. È il caso della
“campagna uguale e contraria” – femminismo e anti-femminismo-
che dagli Stati Uniti è arrivata in questi giorni alle prime pagine
dei giornali italiani e su questo blog.
Basta dare un’occhiata
agli slogan che passano sui social network per capire quanto sia
facile schierarsi, sorvolare sulla complessità del tema e sulla
storia che vi è cresciuta sopra nell’arco di oltre un secolo.
La prima
generalizzazione indebita è quella che costruisce poli opposti, come
se si trattasse di blocchi omogenei al loro interno. In realtà, il
femminismo ha visto succedersi, intrecciarsi e scontrarsi teorie e
pratiche diverse; lo stesso si può dire dei movimenti che, in vari
contesti geografici e culturali, lo hanno criticato e combattuto.
Parlare riduttivamente di un conflitto generazionale -madri e figlie-
è fin troppo facile, ed esime dalla fatica di vedere se in quegli
slogan, l’un contro l’altro armati, non ci siano invece domande,
intuizioni, aspettative, che avrebbero bisogno solo di analisi più
approfondite per capirsi.
Mi limito ad alcuni
esempi. Il femminismo di cui le giovani di #Womenagainstfeminism
dicono di «non aver bisogno» sembra avere essenzialmente due volti:
quello dell’emancipazione – «uguaglianza»,«parità di genere»-
e quello «irato, rancoroso», che vede solo vittime e aggressori,
che in alcuni casi ribalta la discriminazione in prepotenza. Il
riferimento è quasi sempre ai «club delle seconde mogli», e ai
pochi diritti dei padri divorziati.
Nel primo caso,
basterebbe ricordare che l’ “imprevisto” rappresentato dal
movimento delle donne negli anni ’70 è stata proprio la critica
all’emancipazionismo, a una integrazione che, non mettendo in
discussione l’ordine esistente, lasciava soltanto a loro il doppio
aggravio di cura della famiglia e lavoro extradomestico. Con ciò
cadeva anche il dilemma «uguaglianza/differenza»: parità intesa
come assimilazione al modello “neutro” – cioè maschile-, e
“differenza” come tutela di un soggetto debole. Ma c’è di più:
una radicalità nell’analisi della relazione tra i sessi che
prospettava traguardi liberatori per entrambi, autonomia da modelli
di femminilità e virilità imposti.
La necessità di uscire
da ruoli, identità di genere nemiche della vita nella sua interezza,
era già emersa con chiarezza nei documenti di fine anni ’60, prima
che la pratica dell’autocoscienza ne facesse oggetto di riflessione
individuale e collettiva. Nel Manifesto programmatico del Gruppo
Demau (1967) si legge: «Le caratteristiche ora attribuite di forza
all’uno e all’altro sesso (anche se già appaiono negli individui
atteggiamenti contraddittori a queste attribuzioni) si determineranno
infatti spontaneamente come tendenze caratteriali e non come
preparazione forzata a compiti distinti. Questo per dire che il
problema femminile sarà risolto proprio nel momento in cui verrà
superato e perciò abolito. Quando verranno cioè prese, su una
prospettiva diversa da quella dell’integrazione, decisioni
sostanziali sul valore dell’attributo “femminile” e di quello
“maschile” nel contesto di una vita sociale basata sull’individuo
di specie umana e non sulla diversità sessuale».
«Emancipazione
dell’uomo; in quanto il maschio è a sua volta privato di vaste
possibilità umane. Come la donna non ha raggiunto la propria
maturità senza conquistare a sè valori finora negatile, così
l’uomo non possiederà sufficienti strumenti di giudizio e
comprensione se non conquisterà quelli da lui finora disprezzati, o
invidiati, come “femminili”. Anche l’uomo, inoltre, di fronte
all’emancipazione femminile, si potrà trovare in situazioni di
sfruttamento e squilibrio».
È una forzatura
trovare qualcosa di simile negli slogan delle giovani anti-femministe
di oggi, quando dicono di non “odiare” gli uomini, di non volerli
giudicare basandosi sulla violenza di pochi, quando scrivono sui loro
cartelli di voler essere «individui e basta»?
Se c’è ignoranza di
un lungo percorso di idee e pratiche sulla questione dei sessi,
dobbiamo riconoscere che non sta da una parte sola: il femminismo che
continua a mettere al centro l’uguaglianza, e quindi la tutela dei
diritti del sesso svantaggiato, che ha premia talvolta la “rivalsa”
femminile in nome del “politicamente” corretto, ha contribuito
non poco a cancellare persino la memoria di quella rivoluzione
culturale e politica che è stata la “presa di coscienza” di un
dominio legato alle relazioni più intime: i corpi, la sessualità,
le relazioni famigliari. Se le generazioni venute dopo dicono che non
sono più “oppresse”, vuol dire che il processo di liberazione da
una visione maschile interiorizzata del mondo ha prodotto dei
cambiamenti, che vanno riconosciuti e valorizzati. Non possiamo
ignorare il fatto che oggi la violenza degli uomini si abbatte quasi
sempre su decisioni, scelte femminili di libertà, e che, per quanto
in numero limitato, sono ora gli uomini stessi a interrogare la
cultura patriarcale che ha amputato in loro aspetti essenziali
dell’umano. E infine: il selfie, che sembra così lontano dalla
riflessione dei gruppi femministi di origine sull’esperienza
personale, non potrebbe essere visto invece, sotto alcuni aspetti,
come una continuità dell’autocoscienza, della ricerca di un sè
ancora da scoprire?
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