Ebbene ci siamo, oggi
entra in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa (Coe) sulla
“prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle
donne e contro la violenza domestica” approvata nel 2011 a
Istanbul, firmata da 32 Paesi e ratificata da 13.
Ma perché un’altra
Convenzione? Perché mancava uno strumento internazionale
giuridicamente vincolante per gli Stati, che affrontasse il fenomeno
della violenza nelle sue molteplici forme su donne e bambine in
quanto appartenenti al genere femminile. La Convenzione è chiara
sulle strategie da adottare, riassunte nelle 3 P: Prevenzione,
Protezione, Punizione, per raggiungere un unico grande obbiettivo,
eliminare ogni forma di violenza e sopraffazione nelle relazioni di
genere.
L’entrata in vigore è
un passo in avanti che apre una serie di orizzonti sul lavoro che
ancora c’è da fare anche in Italia. Infatti nel nostro Paese, pur
essendoci leggi e tante persone di buona volontà, manca un vero e
proprio sistema organico di prevenzione e di tutela in grado di
affrontare il fenomeno della violenza maschile sulle donne e le
bambine. Non è sufficiente l’operato dei singoli più sensibili e
attenti al problema.
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Cosa dovrebbe cambiare?
Molto. Come ci raccontano le donne che si rivolgono a F. Pangea, nel
provare a denunciare alle forze dell’ordine , o a farsi curare nei
pronti soccorsi, o a parlare con i servizi sociali, o portando i loro
figli a scuola, sperano di capitare con “la persona giusta” in
grado di capire quanto stanno vivendo, non hanno la sicurezza che gli
operatori pubblici siano in grado di accoglierle e tutelarle.
Non hanno fiducia nella
giustizia; sopratutto sono costrette a ricordare (e quindi rivivere)
in continuazione le violenze che hanno subito durante gli
innumerevoli anni del processo civile o penale o presso il tribunale
dei minori, e non hanno la certezza della pena. Tutto ciò
rivittimizza chi ha già subito violenza.
Come anche non si può
ridurre a residuale il lavoro enorme che i centri antiviolenza fanno
da anni in maniera più o meno volontaria, più o meno precaria, a
sostegno di una rete di servizi spesso inesistente e/o incapace di
rispondere adeguatamente a chi chiede supporto.
Con la Convenzione di
Istanbul lo Stato ha l’occasione di mettere a sistema tutto ciò
che già esiste e di colmare i vuoti che ancora ci sono, perché lo
Stato ne è responsabile e si deve far carico di quelle 3P per non
lasciare soli donne, minori, famiglie, volontarie, operatori e
operatrici, nell’affrontare la violenza e le sue conseguenze.
Il piano nazionale
antiviolenza annunciato per ottobre dovrebbe essere il primo degli
strumenti a sostanziare la convenzione di Istanbul in azioni concrete
e utili.
Sarebbe un bel segnale
se la società civile che lavora da anni su questo tema fosse di
nuovo ascoltata e tenuta in considerazione sul merito. Un’occasione
potrebbe essere la riconvocazione delle associazioni che erano state
chiamate a contribuire nella task force sulla violenza sotto il
governo Letta, mai ripresa dal governo Renzi.
Renzi ha scelto di non
assegnare a nessuno la delega alle Pari Opportunità, ma allo stesso
tempo non la esercita in maniera evidente e la questione della
violenza dovrebbe essere all’ordine del giorno, dando un chiaro
segnale soprattutto durante il semestre europeo.
Oggi non sono le
conferenze e i discorsi che vogliamo sentire, non vogliamo che questa
Convenzione sia l’ulteriore documento lettera morta, ma sia
incarnato come guida per trasformare il Bel Paese in un luogo in cui
le persone, indipendentemente dal genere e dall’età, possano
vivere al meglio la loro vita all’interno di relazioni paritarie e
non violente. L’Italia deve fare chiarezza e impegnarsi al fine di
rispettare gli obblighi internazionali e dimostrare un radicale
cambiamento di tendenza rispetto alla responsabilità che lo Stato ha
e intende assumere nei confronti di tutte e tutti
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