domenica 3 agosto 2014

Post femminismo di Simonetta Fiori


INUTILE andarlo a cercare in rete: l’antifemminismo non è pratica diffusa tra le giovani donne italiane. Come invece accade in America, dove impazza l’hashtag womenagainstfeminism, nuova parola d’ordine delle ragazze ostili all’emancipazionismo delle madri, liquidato come aggressivo, inutile e irritante per l’ingiustificato vittimismo. Siamo già eguali, dicono le ribelli statunitensi. Non sentiamo il bisogno di affermarci con la prepotenza. E che male c’è se al lavoro preferiamo la cucina o la cura dei figli? Basta insomma con il cipiglio femminista e i suoi slogan lamentosi. Da noi, no, la protesta non attecchisce. Insofferenza sì, tanta. Verso un certo femminismo giudicante, un po’ bacchettone, oppure chiuso in un estenuante linguaggio esoterico.
Anche ribellione verso la genitorialità frettolosa delle proprie madri, in nome di una nuova mistica della maternità che contrappone all’artificio della tecnica e del biberon la naturalità del parto in casa e dell’allattamento al seno. Ma sempre all’interno di un orizzonte che si definisce “femminista” o “postfemminista”. Perché non è una storia finita, e sono in tante a volerla ancora scrivere. Con modalità diverse da quelle delle generazioni precedenti, ma senza strappi violenti. E questo accade non solo perché il nostro è un paese per certi versi ancora feudale, dove può capitare che donne e portatori di handicap vengano catalogati dall’aspirante presidente della Lega Calcio in una sottospecie che evoca gli untenmenschen.
O dove si gioisca per il dimezzamento delle donne assassinate da 72 a 36 nel primo semestre di quest’anno, come se si trattasse del debito pubblico e non di sei femminicidi al mese — e ne basterebbe uno solo per preoccuparsi. O dove certo la risata non è vietata e il rossore obbligatorio — come rischia di accadere nella vicina Turchia — ma la discriminazione esiste ancora sul lavoro e a casa, e a lungo è pesata — sta ancora pesando — sulle scelte di vita fondamentali come maternità e non maternità.
Non essendo un paese per donne, l’Italia non può esserlo per le antifemministe. Lo è stato nella stagione dei nouveaux réactionnaires, mossi dall’urgenza di distruggere le bandiere della sinistra, anche in nome della devozione a Ruini. Oggi è difficile trovare tra le più giovani una protesta analoga a quella americana anche per una ragione culturale, che differenzia la nostra esperienza da quella più pragmatica delle donne statunitensi. «Se le femministe d’Oltreoceano molto insistono sull’emancipazionismo e sulla parità », dice Lea Melandri, protagonista del movimento italiano, «in Italia negli anni Settanta il femminismo ha avuto un tratto di radicalità e originalità che è difficile liquidare. Noi abbiamo posto al centro della riflessione non l’immissione delle donne nella sfera pubblica ma la relazione tra l’uomo e la donna, e dunque i temi del corpo, della sessualità, della maternità. Non ci interessavano le carriere ma la vita».
La vita, la cura degli affetti. Primum vivere è stato lo slogan degli ultimi convegni femministi di Paestum, dove si sono ritrovate migliaia di donne diversissime per età ed esperienza. Donne che s’interrogano anche sulle nuove sfide della scienza, che cambia la nozione di maternità. La “cura” è diventata la parola chiave che unisce il composito arcipelago femminile, ora al centro di un saggio di Letizia Paolozzi ( Prenditi cura, edizioni et. al). Una “manutenzione delle relazioni” che impedisce al mondo di reggersi solo sui rapporti di potere, ricchezza e sfruttamento. «La grandezza delle donne », dice Luisa Muraro, fondatrice del pensiero della differenza, «è proprio nella sua intimità con il genere umano, un segreto che si manifesta nel vivere quotidiano, nel rapporto con la casa, con le creature piccole, con i cibi e con il proprio uomo. La donna e Dio hanno un segreto di cui Adamo raffigurato dormiente non verrà mai a capo ». E non importa dunque se questa grandezza venga esercitata in cattedra o in cucina. «Da noi è esistito un femminismo più libertario », interviene la storica Anna Bravo «che non si scandalizza se le donne si rallegrano ai fornelli o nell’allevare un figlio piuttosto che lavorare fuori casa. E non si indigna se a una bambina piacciono le Barbie o i vestitini di pizzo. O se belle fanciulle sgambettano in minigonna. È una tendenza meno visibile rispetto al severo femminismo istituzionale, che stigmatizza l’uso delle donne nella pubblicità delle cucine. Ma è una sensibilità diffusa tra “femministe morbide” di generazione diverse. E questo spiega anche la mancanza di fenomeni virali come il recente hashtag americano».
Il dialogo tra madri e figlie, in Italia, appare ininterrotto. E non potrebbe essere altrimenti. «La relazione materna», spiega Muraro, «è uno dei grandi temi del femminismo. E anche nella dissidenza il legame generazionale resta molto vivo». Le più giovani riscoprono l’autocoscienza, amplificata dalle infinite possibilità del web, «la sua straordinaria fecondità emotiva e intellettuale» (così il collettivo femminista Benazir, nato all’Università di Verona). Proprio come negli anni Settanta, seppure in condizioni radicalmente mutate. Non sorprende dunque che sia tornata anche Carla Lonzi, teorica dell’autocoscienza, a cui Maria Luisa Boccia ha appena dedicato il saggio La mia opera è la mia vita (Ediesse). «Non è un ritorno motivato da esigenze di ricostruzione storica» sostiene Boccia. «Ha piuttosto il segno di un ricominciare. Dove si conferma attuale la ricerca di un proprio senso dell’esistenza». Anche la giovane sociologa Giorgia Serughetti affida alla Lonzi il senso più profondo della sua identità femminista: «Conoscersi come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo». Se nella generazione nata negli Ottanta la battaglia dei diritti non viene dimenticata — come potrebbe esserlo? — sembra urgere di più quella per un nuovo ordine non più governato da uno sguardo maschile. E in questa cucitura tra passato e presente, perfino la pratica del selfie può essere vista come una nuova forma di autocoscienza. «Perché non leggerla come la ricerca di un sé ancora da scoprire? », getta là Melandri. Con madri così, anche il più flebile cinguettio dell’antifemminismo è destinato a spegnersi. O a essere sostituito dal nuovo hashtag “perché non possiamo non dirci femministe”. Con buona pace di Benedetto Croce e delle teenagers americane.

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