INUTILE andarlo a
cercare in rete: l’antifemminismo non è pratica diffusa tra le
giovani donne italiane. Come invece accade in America, dove impazza
l’hashtag womenagainstfeminism, nuova parola d’ordine delle
ragazze ostili all’emancipazionismo delle madri, liquidato come
aggressivo, inutile e irritante per l’ingiustificato vittimismo. Siamo già
eguali, dicono le ribelli statunitensi. Non sentiamo il bisogno di
affermarci con la prepotenza. E che male c’è se al lavoro
preferiamo la cucina o la cura dei figli? Basta insomma con il
cipiglio femminista e i suoi slogan lamentosi. Da noi, no, la
protesta non attecchisce. Insofferenza sì, tanta. Verso un certo
femminismo giudicante, un po’ bacchettone, oppure chiuso in un
estenuante linguaggio esoterico.
Anche ribellione verso
la genitorialità frettolosa delle proprie madri, in nome di una
nuova mistica della maternità che contrappone all’artificio della
tecnica e del biberon la naturalità del parto in casa e
dell’allattamento al seno. Ma sempre all’interno di un orizzonte
che si definisce “femminista” o “postfemminista”. Perché non
è una storia finita, e sono in tante a volerla ancora scrivere. Con
modalità diverse da quelle delle generazioni precedenti,
ma senza strappi violenti. E questo accade non solo perché il nostro
è un paese per certi versi ancora feudale, dove può capitare che
donne e portatori di handicap vengano catalogati dall’aspirante
presidente della Lega Calcio in una sottospecie che evoca gli
untenmenschen.
O dove si gioisca per
il dimezzamento delle donne assassinate da 72 a 36 nel primo semestre
di quest’anno, come se si trattasse del debito pubblico e non di
sei femminicidi al mese — e ne basterebbe uno solo per
preoccuparsi. O dove certo la risata non è vietata e il rossore
obbligatorio — come rischia di accadere nella vicina Turchia — ma
la discriminazione esiste ancora sul lavoro e a casa, e a lungo è
pesata — sta ancora pesando — sulle scelte di vita fondamentali
come maternità e non maternità.
Non essendo un paese
per donne, l’Italia non può esserlo per le antifemministe. Lo è
stato nella stagione dei nouveaux réactionnaires, mossi dall’urgenza
di distruggere le bandiere della sinistra, anche in nome della
devozione a Ruini. Oggi è difficile trovare tra le più giovani una
protesta analoga a quella americana anche per una ragione culturale,
che differenzia la nostra esperienza da quella più pragmatica delle
donne statunitensi. «Se le femministe d’Oltreoceano molto
insistono sull’emancipazionismo e sulla parità », dice Lea
Melandri, protagonista del movimento italiano, «in Italia negli anni
Settanta il femminismo ha avuto un tratto di radicalità e
originalità che è difficile liquidare. Noi abbiamo posto al centro
della riflessione non l’immissione delle donne nella sfera pubblica
ma la relazione tra l’uomo e la donna, e dunque i temi del corpo,
della sessualità, della maternità. Non ci interessavano le carriere
ma la vita».
La vita, la cura degli
affetti. Primum vivere è stato lo slogan degli ultimi convegni
femministi di Paestum, dove si sono ritrovate migliaia di donne
diversissime per età ed esperienza. Donne che s’interrogano anche
sulle nuove sfide della scienza, che cambia la nozione di maternità.
La “cura” è diventata la parola chiave che unisce il composito
arcipelago femminile, ora al centro di un saggio di Letizia Paolozzi
( Prenditi cura, edizioni et. al). Una “manutenzione delle
relazioni” che impedisce al mondo di reggersi solo sui rapporti di
potere, ricchezza e sfruttamento. «La grandezza delle donne », dice
Luisa Muraro, fondatrice del pensiero della differenza, «è proprio
nella sua intimità con il genere umano, un segreto che si manifesta
nel vivere quotidiano, nel rapporto con la casa, con le creature
piccole, con i cibi e con il proprio uomo. La donna e Dio hanno un
segreto di cui Adamo raffigurato dormiente non verrà mai a capo ».
E non importa dunque se questa grandezza venga esercitata in cattedra
o in cucina. «Da noi è esistito un femminismo più libertario »,
interviene la storica Anna Bravo «che non si scandalizza se le donne
si rallegrano ai fornelli o nell’allevare un figlio piuttosto che
lavorare fuori casa. E non si indigna se a una bambina piacciono le
Barbie o i vestitini di pizzo. O se belle fanciulle sgambettano in
minigonna. È una tendenza meno visibile rispetto al severo
femminismo istituzionale, che stigmatizza l’uso delle donne nella
pubblicità delle cucine. Ma è una sensibilità diffusa tra
“femministe morbide” di generazione diverse. E questo spiega
anche la mancanza di fenomeni virali come il recente hashtag
americano».
Il dialogo tra madri e
figlie, in Italia, appare ininterrotto. E non potrebbe essere
altrimenti. «La relazione materna», spiega Muraro, «è uno dei
grandi temi del femminismo. E anche nella dissidenza il legame
generazionale resta molto vivo». Le più giovani riscoprono
l’autocoscienza, amplificata dalle infinite possibilità del web,
«la sua straordinaria fecondità emotiva e intellettuale» (così il
collettivo femminista Benazir, nato all’Università di Verona).
Proprio come negli anni Settanta, seppure in condizioni radicalmente
mutate. Non sorprende dunque che sia tornata anche Carla Lonzi,
teorica dell’autocoscienza, a cui Maria Luisa Boccia ha appena
dedicato il saggio La mia opera è la mia vita (Ediesse). «Non è un
ritorno motivato da esigenze di ricostruzione storica» sostiene
Boccia. «Ha piuttosto il segno di un ricominciare. Dove si conferma
attuale la ricerca di un proprio senso dell’esistenza». Anche la
giovane sociologa Giorgia Serughetti affida alla Lonzi il senso più
profondo della sua identità femminista: «Conoscersi come esseri
umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte
dell’uomo». Se nella generazione nata negli Ottanta la battaglia
dei diritti non viene dimenticata — come potrebbe esserlo? —
sembra urgere di più quella per un nuovo ordine non più governato
da uno sguardo maschile. E in questa cucitura tra passato e presente,
perfino la pratica del selfie può essere vista come una nuova forma
di autocoscienza. «Perché non leggerla come la ricerca di un sé
ancora da scoprire? », getta là Melandri. Con madri così, anche il
più flebile cinguettio dell’antifemminismo è destinato a
spegnersi. O a essere sostituito dal nuovo hashtag “perché non
possiamo non dirci femministe”. Con buona pace di Benedetto Croce e
delle teenagers americane.
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