La Convenzione sulla
prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza
domestica è da oggi in vigore in tutti gli Stati membri del
Consiglio d’Europa, ovvero in 47 Stati e per 820 milioni di
cittadini (ben più dei 28 Paesi facenti solo parte dell’Unione
Europea). Era necessario che almeno 10 nazioni, di cui 8 membri del
Consiglio, ratificassero la Convenzione, prima di essere estesa a
tutti gli altri Stati. Firmata a Istanbul nel 2011, la Convenzione è
composta da 81 articoli, suddivisi in 12 capitoli. Si tratta del
primo strumento vincolante a livello internazionale, avente come
obiettivo la creazione di un quadro giuridico integrato per la
prevenzione e protezione delle donne contro qualsiasi forma di
violenza. A differenza di molti altri accordi internazionali, la
Convenzione ha un’impostazione molto “pragmatica” che rimanda a
un’idea concreta dei diritti umani, come relazioni eque nascenti
innanzitutto dal rispetto nei rapporti interpersonali e
intergenerazionali, affettivi e familiari, a partire dalla vita di
tutti i giorni.
La Convenzione può
essere riassunta attraverso 4 P: Prevenzione, Protezione e sostegno
delle vittime, Perseguimento dei colpevoli, Politiche integrate.
Sono le linee guida per
la promozione di interventi pubblici che ogni singolo Stato dovrebbe
adottare e mettere in atto per prevenire ed affrontare il problema
nel suo insieme, da una parte mettendo in rete istituzioni, servizi e
associazioni, mentre dall’altra prendendosi carico dei soggetti
direttamente coinvolti nei fatti, anche se in modi diversi: dalle
donne da tutelare prevenendo il rischio, ai minori da salvaguardare
per via della violenza anche indiretta che subiscono, fino ai
maltrattanti da perseguire e da riabilitare per evitare la recidività
dei loro atti (l’85% di uomini “non trattati” ripetono l’abuso,
spesso in modo ancor più feroce).
La Convenzione parte da
una definizione precisa del fenomeno. L’articolo 3 afferma che con
«violenza nei confronti delle donne si intende designare una
violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le
donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che
provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di
natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce
di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria
della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».
L’Italia era stata
una delle prime nazioni a ratificare la Convenzione, dopo Turchia,
Albania, Montenegro, Portogallo. Un decreto legge sul cosiddetto
femminicidio era stato approvato all’unanimità dalla Camera il 28
maggio 2013 e fra le polemiche la Presidente Boldrini aveva poi
convocato i Deputati il 20 agosto per la conversione del decreto
legge. L’11 Ottobre il Senato aveva infine votato il documento con
143 voti favorevoli e 3 contrari (Popolo delle Libertà).
Successivamente, il 15 Ottobre, il decreto – con modifiche – era
diventato legge (n. 119), recependo di fatto i punti chiave della
Convenzione di Istanbul. Cambiando alcuni punti del precedente
decreto a causa delle proteste suscitate (come nel caso della querela
ritrattabile da parte della donna e dunque non irrevocabile), la
Legge 119 offre nuovi strumenti sia giudiziari per la persecuzione
del reato, sia sociali per la promozione di un piano nazionale di
prevenzione. Si aggiunge dunque ad altre norme giuridiche che già
prevedevano l’allontanamento del coniuge violento (Legge n. 154,
2001) e la punizione di atti persecutori, come lo stalking (Legge n.
38, 2009).
Il decreto legge e
relativa legge 199 erano stati approvati con una velocità
sorprendente per i tempi della politica, sotto la crescente pressione
dell’opinione pubblica, tant’è che la lotta al femminicidio
sembrava diventata una priorità governativa, in una sorta di
esercizio per la ricerca trasversale di intese politiche. Sviluppando
un progetto lasciato incompiuto dalla ministra dimissionaria Idem,
nel giugno 2013, Maria Cecilia Guerra (viceministra del lavoro e
delle politiche sociali con delega alle pari opportunità nel governo
Letta) aveva istituito una task force interministeriale con
l’obiettivo di sviluppare un osservatorio sulla violenza di genere,
secondo sette sottogruppi tematici: Codice Rosa, Comunicazione,
Valutazione del rischio, Formazione, Educazione, Reinserimento
vittime, Raccolta Dati. I lavori della task force sono stati
ultimati, ma rimasti inutilizzati. Eppure la Legge 119 prevede lo
sviluppo di un piano nazionale con l’erogazione di 10 milioni di
euro per i centri anti-violenza e 10 milioni di euro per lo sviluppo
di azioni preventive.
Sebbene i temi politici
cocenti di questa estate non riguardino più la violenza di genere,
bensì le riforme istituzionali, tuttavia il nodo politico delle pari
opportunità e dell’integrazione sociale rimane tuttora irrisolto.
Nonostante Matteo Renzi abbia applicato al suo governo il criterio
formale della parità di genere in termini rappresentativi, ha
tuttavia mantenuto per sé la delega alle pari opportunità, senza
promuovere finora azioni mirate, così com’è ora richiesto sia da
leggi nazionali che da impegni internazionali. Permane dunque il
problema sostanziale dell’uguaglianza e della libertà, soprattutto
quando sono violate sulla base della differenza di genere e delle
diversità (una legge sull’omofobia non è ancora stata approvata).
Ma questo impegno richiede una battaglia culturale collettiva contro
dominanti stereotipi e immaginari di violenza, a partire da sé.
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