“Un ragazzo
d’oro”, “un ragazzo dolce e uno zio premuroso”, “una
persona eccezionale”. Che un bel pomeriggio di domenica, in una
villa dell’Eur, Roma, aggredisce e decapita una donna (colf)
ucraina: di lei, carne da lavoro, carne da macello, viene riferito a
malapena il nome, Oksana Martseniuk, oltre al fatto che era “bella,
bionda, occhi chiari”, il che ne fa una vittima predestinata. Di
lui, Federico Leonelli, un omone di due metri, si spiega anche che
era depresso perché gli era morta la compagna. E vai ovunque con il
“raptus”, parola totalmente priva di senso che dovrebbe essere
abolita dal lessico giornalistico: perché insegna alla gente che
chiunque di noi, preferibilmente maschio, può essere “rapito”
(questo il significato letterale) da un demone che improvvisamente si
impossessa della nostra volontà e ci fa agire diabolicamente.
Il “raptus” è
l’altra faccia del “bravo ragazzo“: buona parte degli 8
assassini di donne e di bambini delle ultimissime settimane sono
stati definiti “bravi ragazzi”, “padri amorosi”, “persone
perbene”. Mostruosamente, gran parte dei media dà pubblicità a
questo modello, preciso come un algoritmo, del brav’uomo che di
colpo, un pomeriggio d’estate, squarta una donna o affonda una lama
nel corpicino di una bimbetta di un anno e mezzo. Con il coro dei
vicini e il giornalista corifeo di turno che come in una tragedia
greca cantano il “bravo ragazzo” e le sue gesta, come se la
vittima in fondo fosse lui. Cercando le sue ragioni e laddove
possibile, solidarizzando con lui (“era depresso”, “lei voleva
lasciarlo”). E dimenticano le vittime vere, non dicendo quasi nulla
di loro se non che erano agnelli perfetti, teneri e biondi, carne
indistinta per il sacrificio. E questo nonostante le donne che si
occupano da decenni di violenza si siano sgolate a dire che i segni
premonitori ci sono sempre, che un femminicidio non nasce mai dal
nulla, ma è preceduto da una lunga teoria di violenza, sorda o
tenuta muta.
Così anche nel caso
di Federico Leonelli salta fuori che il bravo ragazzo era piuttosto
fumantino, che aveva una certa ossessione per le armi da taglio, e a
quanto pare aveva menato sorella e madre (ma la sorella non dice una
parola).
Insomma, un
pomeriggio di domenica, in una bella villa all’Eur, un bravo
ragazzo ci prova con la “colf ucraina bionda e bella”. La quale
inaspettatamente -il rifiuto da parte di una donna, specie se
desiderabile, continua a essere un fattore imprevisto, a meno che la
donna non intenda essere canonizzata- gli dice di no. Scatenando la
furia di lui, furia dell’essere rifiutati che ognuna di noi ha
conosciuto, almeno una volta nella vita, benché in forma non fatale
visto che siamo qui a raccontarcelo. Dunque, lui le salta addosso e
la ammazza. Poi -io il film lo vedo così- il bravo ragazzo comincia
freddamente a pensare come liberarsi del fagotto di carne. Più
comodo farlo a pezzi. Allora si infila una tuta mimetica e una
maschera, perché l’operazione squartamento è piuttosto
sporchevole. Impugna una mannaia e comincia dalla testa, come si fa
con un pollo. Purtroppo la polizia interrompe il lavoro, chiamata dai
vicini di casa allarmati dalle urla della donna. Lui tenta
disperatamente la fuga, brandendo la mannaia. Gli uomini delle forze
dell’ordine sparano -qui la dinamica andrà chiarita- e l’assassino
viene ucciso.
Ecco, per esempio:
ma se i direttori dei giornali e delle testate televisive e
radiofoniche, che sono quasi tutti uomini, provassero a cambiare
prospettiva? Se per esempio partissero da sé, senza delegare alle
donne di sbrogliare la matassa, e proprio da quell’esperienza del
rifiuto che ognuno di loro avrà sperimentato, e dai sentimenti che
hanno provato? Se ci scrivessero un editoriale di proprio pugno, o lo
commissionassero al più brillante dei propri opinionisti? Se
assumessero fino in fondo la questione maschile?
Perché il no di una
donna -o il sì di quella donna a qualcos’altro, anche solo un sì
a se stessa e al proprio desiderio-, salvo eccezioni è la costante
dei femminicidi. Quei bravi ragazzi, quei goodfellas che picchiano e
violentano e perseguitano e uccidono le mogli, le compagne, i figli e
le prede occasionali, stanno quasi sempre reagendo a un’esclusione
che vivono come intollerabile. Se per una volta cambiassimo
algoritmo, se provassimo a scandagliare qui, in questo passaggio
comunissimo e delicatissimo -l’esperienza maschile del no
femminile-, se cercassimo di capire come in queste circostanze si
produce, nei soggetti più deboli, una vera e propria frana psichica,
ecco: non faremmo davvero un passo avanti? Non contribuiremmo a
salvare la vita di tante donne, vittime designate, prima di essere
costretti a parlare di loro in cronaca?
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