C’era una volta un fumetto su Cicciolina che si chiamava Amore libero e venne realizzato all’inizio degli anni Novanta da Giovanni Romanini e Lucio Filippucci. Nel fumetto c’erano tre femministe che chiedevano la gogna per la troppo sessuata Cicciolina, lei luminosa di giovinezza e libertà, loro imprigionate in un tailleur triste e munite di baffi, occhiali e neo peloso d’ordinanza.
La dicotomia è bell’e
servita: le femministe sarebbero dunque donne che “hanno problemi”
con il corpo, la bellezza, il sesso, e impediscono alle altre donne
di vivere felicemente il corpo, la bellezza, il sesso.
Quest’era e quest’è:
la femminista censora è ancora lo spauracchio delle ragazzine
americane che giocano con gli hashtag, il cavallo di battaglia di
opinionisti misogini e il bersaglio delle cosiddette antimoraliste,
convinte che chi si occupa di questioni di genere detesti i tacchi a
spillo, la ceretta e la propria e altrui libertà sessuale.
Ora, si potrà anche
sostenere che le fanciulle d’oltreoceano siano disinformate, che
gli opinionisti misogini siano in pessima fede, e magari che almeno
alcune delle neolibertarie di casa nostra abbiano ben compreso che il
trend del momento è quello che si chiama gender backlash — la
risacca che ciclicamente trascina indietro le conquiste che
riguardano i generi — e che dunque cavalchino quell’onda per
ottenere in cambio un paio di retweet, una ospitata televisiva o la
vendita di qualche copia del proprio saggio contro le femministe
pelose.
Si può, ed è legittimo farlo. Ma non basta.
Perché per arrivare a
ritenere non necessari e anzi perniciosi i movimenti delle donne,
specie in un paese come il nostro dove abortire è quasi impossibile,
l’educazione di genere a scuola un miraggio, la disparità di
stipendi e di posizioni apicali un fatto, significa che la narrazione
del femminismo ha nuovamente fallito.
Fallì già una volta, dopo la stagione degli anni Settanta, quando
non riuscì a raggiungere le figlie perché molte madri si chiusero
nella dorata e selettiva certezza delle università e della teoria.
La seconda volta, questa, fallisce per il motivo opposto: la
semplificazione dei discorsi, la divisione delle donne in buone e
cattive, sante e puttane, in camicione e minigonna, moraliste e
libere. Non è vero, certo: ma è stato raccontato così, in molti
casi, dall’una e l’altra parte, e oggi è difficilissimo
infrangere la dicotomia e spiegare che i femminismi liberano i corpi
e non li mortificano, specie in tempi di contrazione dei discorsi ad
hashtag, appunto.
Eppure, soltanto
trovando la narrazione giusta (a scuola, nei media, in rete) si può
fare a meno di quello che è già diventato un derby: ma non è
impresa semplice. Qualche giorno fa, sulla bacheca Facebook di una
brava editor e scrittrice si è scatenato un putiferio perché la
medesima aveva sottolineato come, in un’inchiesta sull’editoria,
tutti gli scrittori intervistati fossero maschi. Non vorrete mica le
quote rosa, è stato detto. E vai a spiegare che no, non è questione
di quote e non si tratta di metterci a forza una scrittrice per
rispettare il politicamente corretto. La questione è che le
scrittrici ignorate non sono state “viste”: non vengono in mente
a chi scrive articoli, cura antologie, organizza festival. E se
questo avviene nel più avvertito dei settori, la letteratura, come
può avvenire altrove? Come si cambia una narrazione se non se ne
avverte la necessità neppure fra i narratori, e persino quando il
“fermaporte”, il librone epocale del 2014, è stato scritto da
una donna? E, a proposito, quando avremo anche noi il nostro
Cardellino e la nostra Donna Tartt,
se ne accorgerà
qualcuno?
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