martedì 12 agosto 2014

IL FEMMINISMO CHE NON PARLA ALLE RAGAZZE - Loredana Lipperini


C’era una volta un fumetto su Cicciolina che si chiamava Amore libero e venne realizzato all’inizio degli anni Novanta da Giovanni Romanini e Lucio Filippucci. Nel fumetto c’erano tre femministe che chiedevano la gogna per la troppo sessuata Cicciolina, lei luminosa di giovinezza e libertà, loro imprigionate in un tailleur triste e munite di baffi, occhiali e neo peloso d’ordinanza.

La dicotomia è bell’e servita: le femministe sarebbero dunque donne che “hanno problemi” con il corpo, la bellezza, il sesso, e impediscono alle altre donne di vivere felicemente il corpo, la bellezza, il sesso.

Quest’era e quest’è: la femminista censora è ancora lo spauracchio delle ragazzine americane che giocano con gli hashtag, il cavallo di battaglia di opinionisti misogini e il bersaglio delle cosiddette antimoraliste, convinte che chi si occupa di questioni di genere detesti i tacchi a spillo, la ceretta e la propria e altrui libertà sessuale.

Ora, si potrà anche sostenere che le fanciulle d’oltreoceano siano disinformate, che gli opinionisti misogini siano in pessima fede, e magari che almeno alcune delle neolibertarie di casa nostra abbiano ben compreso che il trend del momento è quello che si chiama gender backlash — la risacca che ciclicamente trascina indietro le conquiste che riguardano i generi — e che dunque cavalchino quell’onda per ottenere in cambio un paio di retweet, una ospitata televisiva o la vendita di qualche copia del proprio saggio contro le femministe pelose.
 Si può, ed è legittimo farlo. Ma non basta.

Perché per arrivare a ritenere non necessari e anzi perniciosi i movimenti delle donne, specie in un paese come il nostro dove abortire è quasi impossibile, l’educazione di genere a scuola un miraggio, la disparità di stipendi e di posizioni apicali un fatto, significa che la narrazione del femminismo ha nuovamente fallito.
 Fallì già una volta, dopo la stagione degli anni Settanta, quando non riuscì a raggiungere le figlie perché molte madri si chiusero nella dorata e selettiva certezza delle università e della teoria. 
La seconda volta, questa, fallisce per il motivo opposto: la semplificazione dei discorsi, la divisione delle donne in buone e cattive, sante e puttane, in camicione e minigonna, moraliste e libere. Non è vero, certo: ma è stato raccontato così, in molti casi, dall’una e l’altra parte, e oggi è difficilissimo infrangere la dicotomia e spiegare che i femminismi liberano i corpi e non li mortificano, specie in tempi di contrazione dei discorsi ad hashtag, appunto.

Eppure, soltanto trovando la narrazione giusta (a scuola, nei media, in rete) si può fare a meno di quello che è già diventato un derby: ma non è impresa semplice. Qualche giorno fa, sulla bacheca Facebook di una brava editor e scrittrice si è scatenato un putiferio perché la medesima aveva sottolineato come, in un’inchiesta sull’editoria, tutti gli scrittori intervistati fossero maschi. Non vorrete mica le quote rosa, è stato detto. E vai a spiegare che no, non è questione di quote e non si tratta di metterci a forza una scrittrice per rispettare il politicamente corretto. La questione è che le scrittrici ignorate non sono state “viste”: non vengono in mente a chi scrive articoli, cura antologie, organizza festival. E se questo avviene nel più avvertito dei settori, la letteratura, come può avvenire altrove? Come si cambia una narrazione se non se ne avverte la necessità neppure fra i narratori, e persino quando il “fermaporte”, il librone epocale del 2014, è stato scritto da una donna? E, a proposito, quando avremo anche noi il nostro Cardellino e la nostra Donna Tartt,

se ne accorgerà qualcuno?

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