Proviamo qui ad approfondire il confronto che si è aperto su femminismo e generazioni. Per non disperdere i valori. E l’energia che ancora ci serve
«Care donne che non
hanno bisogno del femminismo: la maggior parte di voi mi sembra
essere giovane, bianca, mediamente attraente e normodotata. Ciò
significa che ci sono aspetti dell’esperienza politica di essere
una donna che non avete ancora sperimentato ed esperienze che
potreste non fare mai».
Così scrive Laurie
Penny, collaboratrice del New Statesman, in una lettera aperta che
sta facendo il giro del web dopo il successo dell’hashtag
#womenagainstfeminism, firmato da giovani e giovanissime donne.
«Essere giovani non è un peccato», continua la giornalista
inglese, «Aver interiorizzato il sessismo non vi rende persone
cattive, sempre che non decidiate di gettare fango su tutte le altre
donne che stanno cercando di costruire un mondo più giusto e più
libero per tutte noi. Diciamo solo che ci rivediamo tra 10 anni, io
vi racconterò come va la lotta, e voi mi farete sapere che cosa il
vostro anti-femminismo ha fatto per voi».
Laurie Penny ha 28
anni. È dunque alle sue coetanee che parla. E così hanno fatto, su
questo blog, Camilla Gaiaschi e Alessandra Ghimenti. E questo è un
buon punto di partenza per superare l’impasse di uno scontro
generazionale fatto tutto di sapere («voi non sapete cos’è stato
il femminismo») e ignoranza («il femminismo è quel pensiero che
insegna a odiare gli uomini, farsi crescere i peli o darla al primo
che capita»), di eredità non trasmesse e rifiuti aprioristici. Tra
coetanee ci si può confrontare, capire, e non necessariamente andare
d’accordo, senza che questo rappresenti un fallimento per l’una o
l’altra parte. Perciò ha ragione Laurie Penny a premettere nel suo
dialogo immaginario con le giovani donne «che non hanno bisogno del
femminismo» che loro sono – ovviamente – del tutto libere di
rifiutare il femminismo. E a sottolineare che questa bella libertà
di essere pro e di essere contro – anche pro e contro il femminismo
– è una conquista molto recente per le donne nella società
occidentale, «che ha storicamente punito le donne per la loro
insolenza, e ancora lo fa». E questo è un merito del femminismo,
anzi un “successo del femminismo” come ha scritto Monica
Lanfranco sul suo blog qualche giorno fa.
C’è però un
discorso che non mi convince, che si trova nella lettera di Laurie
Penny come in tanti scritti che ho letto in questi giorni. Quello che
si può riassumere con il messaggio alle giovani: se solo vi
guardaste intorno vedreste quanta violenza e quanta discriminazione
subiscono ancora le donne, e voi stesse in futuro – quando sarete
vecchie e non più attraenti, o se mai sarete violentate o se vorrete
abortire – vi accorgerete che del femminismo c’è bisogno, e ne
avrete bisogno anche voi. Il femminismo è dunque una faccenda di
donne anziane o brutte, molestate o picchiate, discriminate sul
lavoro o trattate come oggetti? Non ha niente da dire a chi non vive
– o non sente di vivere – sulla propria pelle né la
discriminazione né la violenza? A chi dice «non ho bisogno del
femminismo perché mi sento sufficientemente forte da sola»? Non c’è
dubbio che il perdurare dell’oppressione delle donne, in forme
anche brutali, in larga parte del globo terrestre sia una motivazione
per continuare a lottare. E tuttavia questa ricerca, questa postura
verso di sé e nella relazione con l’altro e l’altra – non un
modo d’essere ma un divenire – questo che è per me l’essere
femminista, ha anche
radici più profonde nel vivere. Riguarda il divenire se stesse –
divenire soggetto – nel rapporto con istituzioni sociali, forme
culturali, sistemi di rappresentazioni plasmate nei secoli senza di
noi, dal potere maschile, verso cui esercitare la propria
autodeterminazione. E in quanto tale riguarda tutte.
Nel suo ultimo saggio
su Carla Lonzi (Con Carla Lonzi, Ediesse 2014), Maria Luisa Boccia
ricorda come per il gruppo Rivolta Femminile, negli anni ’70, non
si trattasse di «proporre modelli di vita da adottare», non di
«confutare ideologicamente le concrete scelte di vita, e ancor meno
di sottovalutare le motivazioni e persino l’imperativo sociale
all’emancipazione». Il problema, per dirla con le parole della
stessa Lonzi, è «conoscersi come esseri umani completi, non più
bisognosi di approvazione da parte dell’uomo». Il senso profondo
dell’essere femministe per me è tutto – e semplicemente – qui.
E se c’è bisogno di reinventare un linguaggio perché si possa
uscire dallo stereotipo e riscoprire un femminismo capace di parlare
a tutte, reinventiamolo.
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