lunedì 11 agosto 2014

Il femminismo? Essere me stessa senza aver bisogno di approvazione Giorgia Serughetti


Proviamo qui ad approfondire il confronto che si è aperto su femminismo e generazioni. Per non disperdere i valori. E l’energia che ancora ci serve

«Care donne che non hanno bisogno del femminismo: la maggior parte di voi mi sembra essere giovane, bianca, mediamente attraente e normodotata. Ciò significa che ci sono aspetti dell’esperienza politica di essere una donna che non avete ancora sperimentato ed esperienze che potreste non fare mai».

Così scrive Laurie Penny, collaboratrice del New Statesman, in una lettera aperta che sta facendo il giro del web dopo il successo dell’hashtag #womenagainstfeminism, firmato da giovani e giovanissime donne. «Essere giovani non è un peccato», continua la giornalista inglese, «Aver interiorizzato il sessismo non vi rende persone cattive, sempre che non decidiate di gettare fango su tutte le altre donne che stanno cercando di costruire un mondo più giusto e più libero per tutte noi. Diciamo solo che ci rivediamo tra 10 anni, io vi racconterò come va la lotta, e voi mi farete sapere che cosa il vostro anti-femminismo ha fatto per voi».

Laurie Penny ha 28 anni. È dunque alle sue coetanee che parla. E così hanno fatto, su questo blog, Camilla Gaiaschi e Alessandra Ghimenti. E questo è un buon punto di partenza per superare l’impasse di uno scontro generazionale fatto tutto di sapere («voi non sapete cos’è stato il femminismo») e ignoranza («il femminismo è quel pensiero che insegna a odiare gli uomini, farsi crescere i peli o darla al primo che capita»), di eredità non trasmesse e rifiuti aprioristici. Tra coetanee ci si può confrontare, capire, e non necessariamente andare d’accordo, senza che questo rappresenti un fallimento per l’una o l’altra parte. Perciò ha ragione Laurie Penny a premettere nel suo dialogo immaginario con le giovani donne «che non hanno bisogno del femminismo» che loro sono – ovviamente – del tutto libere di rifiutare il femminismo. E a sottolineare che questa bella libertà di essere pro e di essere contro – anche pro e contro il femminismo – è una conquista molto recente per le donne nella società occidentale, «che ha storicamente punito le donne per la loro insolenza, e ancora lo fa». E questo è un merito del femminismo, anzi un “successo del femminismo” come ha scritto Monica Lanfranco sul suo blog qualche giorno fa.

C’è però un discorso che non mi convince, che si trova nella lettera di Laurie Penny come in tanti scritti che ho letto in questi giorni. Quello che si può riassumere con il messaggio alle giovani: se solo vi guardaste intorno vedreste quanta violenza e quanta discriminazione subiscono ancora le donne, e voi stesse in futuro – quando sarete vecchie e non più attraenti, o se mai sarete violentate o se vorrete abortire – vi accorgerete che del femminismo c’è bisogno, e ne avrete bisogno anche voi. Il femminismo è dunque una faccenda di donne anziane o brutte, molestate o picchiate, discriminate sul lavoro o trattate come oggetti? Non ha niente da dire a chi non vive – o non sente di vivere – sulla propria pelle né la discriminazione né la violenza? A chi dice «non ho bisogno del femminismo perché mi sento sufficientemente forte da sola»? Non c’è dubbio che il perdurare dell’oppressione delle donne, in forme anche brutali, in larga parte del globo terrestre sia una motivazione per continuare a lottare. E tuttavia questa ricerca, questa postura verso di sé e nella relazione con l’altro e l’altra – non un modo d’essere ma un divenire – questo che è per me l’essere
femminista, ha anche radici più profonde nel vivere. Riguarda il divenire se stesse – divenire soggetto – nel rapporto con istituzioni sociali, forme culturali, sistemi di rappresentazioni plasmate nei secoli senza di noi, dal potere maschile, verso cui esercitare la propria autodeterminazione. E in quanto tale riguarda tutte.

Nel suo ultimo saggio su Carla Lonzi (Con Carla Lonzi, Ediesse 2014), Maria Luisa Boccia ricorda come per il gruppo Rivolta Femminile, negli anni ’70, non si trattasse di «proporre modelli di vita da adottare», non di «confutare ideologicamente le concrete scelte di vita, e ancor meno di sottovalutare le motivazioni e persino l’imperativo sociale all’emancipazione». Il problema, per dirla con le parole della stessa Lonzi, è «conoscersi come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo». Il senso profondo dell’essere femministe per me è tutto – e semplicemente – qui. E se c’è bisogno di reinventare un linguaggio perché si possa uscire dallo stereotipo e riscoprire un femminismo capace di parlare a tutte, reinventiamolo.

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