sabato 2 agosto 2014

PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI FEMMINISTE Natalia Aspesi



Ci sono luoghi lontani, altri mondi immutabili, dove vengono lapidate per adulterio, ammazzate se non portano il velo, esortate a non sorridere; dove non possono guidare, andare a scuola, rifiutare il marito scelto dalla famiglia; dove vengono date in sposa a dieci anni a vecchiacci, rapite per trasformarle in kamikaze, stuprate e impiccate, dove le bambine vengono mutilate dei genitali perché non conoscano il piacere. Sono luoghi, mondi dove tutto è regolato dal funesto e pazzo imperio maschile sulle donne, creature inferiori secondo leggi e costumi millenari.
L’Italia sarebbe invece il loro paradiso, il regno della parità dove abbondano ministre e amministratrici delegate e quelle che cacciano il compagno di casa, se non fosse che ogni tanto i loro uomini le ammazzano per troppo amore. Ma allora sarà il caso di vantarsi di antifemmismo, come ha fatto una piccola folla di giovani americane con i loro cartelli infantili sui blog, dimenticandosi di altri mondi e altri modi umiliati e pericolosi di essere donna; o sarebbe meglio lasciare perdere, e semplicemente convincere il marito che non deve schiaffeggiare la moglie solo perché lei guadagna di più o anche organizzare una protesta tra signore perché secondo l’Istat le pensioni maschili sono almeno il doppio
di quelle femminili.
Non c’è bisogno di dichiararsi femministe, suscitando ancora qualche sghignazzo, se si esce volentieri tra amiche o ci si innervosisce se i compagni di università, ancora oggi ti prendono in giro consigliandoti di lasciar perdere la laurea e startene in cucina. Né soprattutto di vantarsi di essere antifemministe solo perché si portano i tacchi a spillo anche sulle rocce o si seguono avidamente le ricette di Giallo Zafferano anziché rileggere Sputiamo su Hegel , testo fondamentale di Carla Lonzi sul femminismo combattivo e
colto.
La ribellione delle donne ha attraversato i secoli, alternativamente ha vinto e ha perso, e negli anni ‘70 del ventesimo secolo è esplosa, e i padri avevano smesso da poco di chiudere in casa, pestare, ammazzare, le figlie colpevoli di minigonna. C’erano favolose novità, a parte gli zoccoli e le gonne da zingara: a Milano si andava al Piccolo Teatro ad ascoltare Betty Friedan, quella della Mistica della femminilità che aveva smontato la noiosissima vita delle americane bon ton, in casa tutto il giorno a cotonarsi e ad attendere il ritorno del marito dal lavoro per offrirgli l’aperitivo, come a noi che ciabattavamo in cucina era possibile invidiare solo al cinema. La Friedan era una signora brutta e leggermente soporifera (poi venne Germaine Greer, bella e seducente), peccato che, pur ormai votate al femminismo, bisognava correre a casa a far da mangiare. Un marito che avesse trovato la tavola non apparecchiata era una bestemmia, lui sarebbe rimasto di sale, lei si sarebbe vergognata del terribile misfatto. Anche adesso veramente, e senza vergognarsi, la tavola può restare sgombra, a meno che sia lui a pensarci, e di solito in questo caso si mangia meglio.
Il femminismo del secolo scorso era capitato in un momento politico fortunato, in cui anche i giovani maschi ansiosi di rivoluzione volevano fare autocoscienza e se mai il loro difetto era che si rifiutavano di liberare le ragazze, sia pure su loro insistente richiesta, della ingombrante e impolitica verginità. La verità è che le donne si sono liberate di talmente tante limitazioni che ormai non se ne rendono più conto: per esempio non vanno più in galera se fanno le corna al marito, il marito non è assolto se ammazza la moglie colta in flagrante, non si viene più licenziate se ci si sposa, né sposandosi la dote e gli eventuali guadagni non sono esclusiva proprietà del marito, come i figli, l’interruzione di gravidanza è legale e non si muore più di scannamento clandestino: si può andare all’università e fare il magistrato, anche il generale, tutto tranne il prete, figuriamoci il Papa, ma pazienza. Il marito non è più un padrone e non gli si deve ubbidienza, poi non è detto (vedi posta del cuore) che non sia un despota (anche lei però) nel qual caso si può sempre andarsene. Era tanto grama la condizione delle donne, anche italiane, in passato, che ormai sembra di aver ottenuto se non tutto, quasi tutto: eppure c’è ancora molto da fare, basta pensarci un momento, femminismo o no. Le leggi volute anche dagli uomini, per lo meno da quelli ansiosi di giustizia, hanno cambiato la vita femminile. E gli uomini, compresi quelli ansiosi di giustizia, a parte le leggi e la politica, hanno davvero imparato a considerare le donne in modo paritario, persone autonome e libere? Certo, ma allora perché talvolta, anzi spesso, certo per sbaglio, si ritrovano in preda a un inarrestabile sessismo, tipo il giovane grillino che ha accusato una collega di aver fatto strada coi pompini? Perché capita che una mano maschile sfiori il fianco della collega, (ai miei tempi in tram era immancabile la cosiddetta “mano morta” che si subiva in silenzio per “non far brutta figura”) o che in strada uomini attempati e dignitosi mormorino sconcezze alla ragazza che gli passa accanto? In ufficio anche la manager può essere presa per la fattorina (vedi per esempio il film Nel centro del mirino in cui il poliziotto Eastwood chiede il caffè alla collega poliziotta credendola un’inserviente): se una si merita un complimento professionale la paragonano per maggior bravura a una collega, mai a un collega.
Ce ne è centinaia di queste storie quotidiane che fanno imbestialire le donne, che adesso le raccontano nel blog “Everyday sexism projet” anche italiano, o nel “Women’s blog” del Guardian raccolte per esempio sotto il titolo “10 scenari sessisti che le donne devono affrontare sul lavoro”, tipo se una risponde con una certa forza può sentirsi dire “Hai le tue cose per essere così astiosa?”. Certi atteggiamenti innocui ma molto fastidiosi non sono molto cambiati: negli anni ‘60, unica donna al Giorno, osai, in un gruppetto di colleghi, fare il nome di un regista che in quel momento nessuno di loro ricordava e fui subito tacitata, “Non fare la saccente!”.

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