Paolo
Di Stefano ha scritto un articolo interessante, denso emotivamente ma
anche ricco di stimoli di riflessione, sui padri che uccidono i loro
figli. E propone di dare un nuovo nome a ciò che sta accadendo,
figlicidio: credo sia giusto perché quando avvengono fatti nuovi,
soprattutto se seriali, occorre inventare parole nuove, che li
nominino nei loro significati, diversi rispetto al passato. Il
giornalista termina il proprio scritto con un elogio all’imperfezione
(dei genitori) e non si può che dargli ancora ragione: la ricerca
della perfezione, madri perfette, padri che cercano di emularle, può
generare sentimenti e situazioni difficili da controllare. Sentimenti
di inadeguatezza, frustrazione, isolamento, difficoltà di
comunicazione con l’esterno ma anche dentro la coppia.
Penso
che tutto questo sia giusto osservarlo e che si debba ancora andare
avanti a pensare insieme, riflettere, cercare di capire sempre più
cosa sta accadendo e perché fenomeni dal segno positivo – le nuove
e più consapevoli, partecipate paternità – possano trasformarsi e
divenire percorsi di violenza e orrore.
Credo
che tutto quanto accade nei cambiamenti dei rapporti tra donne e
uomini abbia un legame, non si possa cioè esaminare i diversi
fenomeni separatamente. Mi permetto allora un breve excursus per
tentare una visione d’insieme, che sarà inevitabilmente parziale
ma che si potrà comporre con altre riflessioni perché dobbiamo
farlo, è necessario farlo, è l’unica risposta a fenomeni che ci
sembra di non saper arginare e comprendere.
Da
alcuni decenni abbiamo assistito, e alcune/alcuni di noi contribuito
con le proprie scelte, con il proprio pensiero, a una rivoluzione
epocale nelle relazioni di genere. Avviata dalle donne ha coinvolto
anche gli uomini e credo più profondamente di quanto non appaia.
Donne
e uomini sono cambiati, stanno cambiando e questo inevitabilmente
riguarda il complesso della vita di ognuno, i rapporti privati,
pubblici, professionali, riguarda quindi anche le famiglie, le nuove
famiglie che si sono formate e si vanno formando. Per molteplici
motivi – l’ansia di non essere all’altezza del compito
genitoriale se si lavora, una presa di distanza dalla generazione
precedente di madri “scellerate” e altri ragioni ancora – le
giovani madri ambiscono a un modello di perfezione, non si
accontentano di essere le madri “buone” o “sufficientemente
buone” di Winnicott.
Accanto
a loro uomini/padri spesso ammirati di questa ricerca e a loro volta
concentrati nell’impresa di essere nuovi rispetto al modello del
padre assente ancora dominante nelle generazioni precedenti. Di
questa ambizione maschile si sono rapidamente impadroniti i media e
la pubblicità, e allora un fiorire di spot, di copertine di
rotocalco, di storie edificanti, cui nessuno di noi riesce a
sottrarsi nel momento in cui ci incantiamo davanti a un passeggino
condotto da un uomo, osserviamo con commozione il padre indomito,
incurante della fatica e del sole, che costruisce castelli di sabbia,
sistema costumini, infila braccioli, abbraccia con morbidi
asciugamani corpicini bagnati.
Come
misurarsi con tutto ciò, come confrontare i propri tentativi,
talvolta maldestri, con queste immagini e con le madri sempre pronte
a segnalare manchevolezze, imprecisioni o errori?
Lontani
da immagini e modelli edificanti gli uomini/padri reali fanno i conti
con le loro fatiche, con le contraddizioni che vivono ancora potenti
di modelli ben diversi di maschilità. Si fa molta fatica, mi
racconta uno di loro, a divenire uomini diversi, scontrandosi con un
passato ancora ben vitale, e si fa molta fatica a crescere con i
propri figli, ci si sente fragili e vulnerabili, incapaci e il vulnus
che può far perdere la testa spesso è o sembra un motivo futile,
scrive ancora Paolo Di Stefano, ma appare come un ostacolo
insuperabile all’uomo che non sa opporvisi, che manca – ed è
qualcosa che invece noi donne solitamente abbiamo – di un
confronto, di un dialogo con uomini nella sua stessa situazione.
Vicini
a donne che appaiono più brave in tutto, sottoposti a una continua
proposizione di modelli inarrivabili, vivono frustrazioni legate non
solo alla paternità, ma alla loro (presunta) inadeguatezza come
uomini, ormai destituiti, o volontariamente rinunciatari, alle
barriere di sicurezza edificate dalla società patriarcale, erosa nei
suoi valori, ma che ancora non è morta, e, se è morta, scrive
Sandro Bellassai nel suo bel libro L’invenzione della virilità,
«non se ne sono ancora celebrati i funerali».
E
siamo tutte e tutti noi che dobbiamo celebrarli questi funerali,
prendendone coscienza, parlandone, sì anche tra donne e uomini,
cercando di capire cosa si muove nella testa e nel cuore di quel
padre, che non trascura la palestra e spesso è tatuato, e al
contempo cerca di apprendere il senso, reale, del suo essere padre.
Che non è divenire una madre di serie b, ma che significa
probabilmente assumersi compiti, apprendere nuove virtù o
riscoprirne e aggiornarne di antiche, che ancora sfuggono, a lui e a
ognuno di noi.
Non
posso e non voglio dare consigli, parlo delle mie esperienze e cerco
di capire cosa succede intorno a me, vorrei che si generassero non
solo parole nuove che parlano di eventi terribili, ma che nascesse,
se pure a gradi, una quotidianità che si interroga, che non lascia
soli e non lascia cadere un discorso, che è necessario e difficile,
ed è il discorso dei tempi in cui viviamo.
Una
quotidianità che investe singoli e singole, che racconta le loro
storie, che divengono corali e riguardano la collettività, perché
questa è la caratteristica delle riflessioni e pratiche di genere,
essere tema privato e al contempo pubblico.
Una
responsabilità di trasformazione delle esistenze di ognuno e di
tutti che è troppo pesante per essere portata da ogni singola
persona, donna o uomo che sia.
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