Ti
senti a tuo agio a dire «non so»?
Katty
Kay: «Sì, ho imparato a sentirmi a mio agio».
Claire
Shipman: «All’inizio no. Quando ho cominciato a seguire come
giornalista la Casa Bianca, sentivo di dover sapere tutto. Politica
estera, bilancio. Sono una perfezionista. Poi, con il tempo, ho
imparato che è ok anche dire: su questo tema ci sto ancora
lavorando».
Ci
vuole coraggio a rispondere «non so». E infatti non tutti lo fanno.
Lo fanno le donne, molto più degli uomini. Ma pochissime di loro
sarebbero disposte a chiamare «coraggio» questo ammettere di non
sapere, soprattutto durante una importante riunione di lavoro o nel
corso di una discussione in cui sarebbe utile — per la carriera, ma
anche semplicemente per l’amor proprio — fare bella figura. Più
che di «coraggio» viene spontaneo parlare di «suicidio»,
professionalmente parlando.
Chi
dice «non so» si mette all’angolo da solo. È come un terreno
arido, gli altri distolgono lo sguardo. Del resto «il deserto è un
luogo privo di aspettative», scriveva Nadine Gordimer.
A
Katty Kay e Claire Shipman, le giornaliste protagoniste dello scambio
di battute (tratto da un’intervista al New York Times) che apre
questo articolo, il merito di aver rilanciato il dibattito sulla
cronica mancanza di fiducia in se stesse delle donne. Il «non so» è
una delle espressioni più cristalline di questa mancanza. È un
dubitare non solo di ciò che si sa, ma anche di ciò che si è.
«Proponetevi per le promozioni! — esorta Laszlo Bock, manager di
Google —. Se una donna dice di sentirsi pronta, lo è già da un
anno». Ma come mai le donne raramente si sentono pronte? Perché
hanno sempre mille dubbi: «Non so se sono abbastanza preparata per
quell’incarico»?
Anche
gli uomini hanno qualche dubbio, ma non per questo si fanno fermare
nella loro corsa.
Anzi
tirano a indovinare, quando non sanno, e magari vanno a segno. Perché
il punto è che non sempre si tratta di spacconate, ma, appunto, di
fiducia in se stessi. E il fattore «sicurezza» – rivela un
cospicuo numero di studi — è più importante della competenza nel
favorire la carriera. Chi è convinto delle proprie capacità è più
convincente.
«Avere
talento non è sufficiente — avverte Cameron Anderson, psicologo
dell’Università di Berkeley —. La fiducia in sé, reale, non
costruita, è parte del talento. E bisogna averla per eccellere».
Il
saggio delle due giornaliste, Confidence Code, ormai citatissimo,
parte dalla constatazione che anche le donne di grande successo hanno
una irreversibile e insospettabile tendenza a sottovalutarsi, a
sedersi all’angolo del tavolo. Alcune addirittura si sentono un po’
impostore, se non delle usurpatrici, quando occupano posti di
comando. Capita a donne che hanno scalato tutte le posizioni come
Arianna Huffington e Sheryl Sandberg — due fra i nomi più
celebrati — e capita a tutte noi, infinitamente più in basso nella
scala evolutiva del potere al femminile (guardate la video-inchiesta
Le Donne e il Potere).
Le
donne si interrogano, dubitano e, a un certo punto, si fermano. Come
convincerle a proseguire?
Le
possibili vie d’uscita sono due: o smettiamo di dire «non so»,
imparando la lezione maschile, o cominciamo a considerare quel modo
di porci non come una mancanza, ma come un passaggio a Nord Ovest, un
valore da consegnare alle generazione future.
«Qualche
anno fa, sulla scia della crisi finanziaria, si è riconosciuto come
l’eccessiva sicurezza in se stessi di molti uomini fosse un
pericolo per loro stessi e per il loro Paese. E adesso viene chiesto
alle donne di scimmiottare il comportamento dello sbruffone di
successo?», s’interroga Amanda Hess su Slate. No, non può essere
questa la strada.
«In
generale, prendo positivamente il “non so” delle donne di fronte
a una domanda di cui non conoscono la risposta come una dimostrazione
concreta di una evoluta coscienza del limite», riflette Anna Rosa
Buttarelli, docente di Ermeneutica e Filosofia della storia
all’Università di Verona, impegnata da anni nel pensiero e nella
politica della differenza. Per Buttarelli quella femminile non è una
vocazione speculativa al dubbio, piuttosto una vocazione alla auto
consapevolezza e a coltivare una particolare coscienza critica che
non scivola mai nel dubbio a oltranza. «Non commettiamo l’errore
di inserire le donne nella tradizione cartesiana in cui si assimila
l’essere al pensare dubbioso — avverte —. Niente di più
lontano. “Non so” significa riconoscere che il sapere e la
capacità di conoscere sono limitati».
È
un cambiamento di prospettiva: il «non so» da paradigma di sfiducia
in se stesse a dubbio fecondo, che porta dei frutti. «La forma
mentis generale delle donne che coraggiosamente sopportano il “non
sapere” (ne faccio proprio una questione di coraggio) può essere
una grande risorsa rivoluzionaria per la condizione umana storica —
riprende Buttarelli —. Unire pensiero e azione, pensare e parlare
in pubblico, nelle donne segue un processo e delle difficoltà che
non vanno d’accordo con le prassi pubbliche attuali. Ci sono donne
che, sentendosi così differenti rispetto ai comportamenti imposti
generali, perdono fiducia nella loro capacità di agire e di pensare.
Questo è un problema. Ma è un problema anche che in area
anglosassone le femministe insistano a leggere i comportamenti
femminili non allineati ai paradigmi maschili come difetti delle
donne, come inadeguatezze colpevoli. Lamentarsi continuamente
indebolisce e immiserisce, ed è un errore di pensiero».
La
paure di fallire, che blocca molti talenti femminili su posizioni di
retroguardia, più semplici da presidiare, va affrontata a viso
aperto. Jessica Bacal nel suo Mistakes I Made at Works, errori che ho
fatto sul posto di lavoro, racconta i fallimenti che sembravano
catastrofici di 25 donne di successo, le quali hanno saputo trarre da
quegli episodi insegnamenti per rialzarsi. Il messaggio è: così
come ci sono molti modi per avere successo, ci sono molti modi di
vacillare. E comunque andare avanti.
Teresa
Budetta, 26 anni, laurea in Bocconi, racconta il trauma dell’ingresso
nel mondo del lavoro. «Il mio primo stage è stato in una banca
d’investimento a Londra. L’autostima che avevo coltivato con gli
ottimi voti è crollata. Avevo molte idee, ma ogni volta che dovevo
proporle al mio capo mi assaliva una sensazione di nausea. Stanca di
restare dietro le quinte ne ho parlato con un’ex compagna di
università e ho capito che è un problema condiviso, solo che
nessuna lo ammette ad alta voce». Teresa continua il suo racconto
spiegando come il mentoring abbia dato una svolta alla sua carriera:
«Confrontarmi con donne di successo, talento e di straordinaria
ispirazione mi ha dato la forza per credere che anch’io posso
farcela e di trovare dentro di me il coraggio per superare queste
paure».
Ridurre
tutto all’individuo, alle insicurezze che ciascuna si porta dentro,
è dunque un errore di prospettiva. Perché, come dimostra il
racconto di Teresa, l’autostima personale può di più se poggia su
un’autostima di genere, come un nano sulle spalle di un gigante. E
qui nasce spontanea la domanda: la mancanza di fiducia non sarà
dunque il riflesso di una cultura che non dà alle donne alcuna
ragione per sentirsi sicure di sé?
Buttarelli
ha provato a rispondere con il libro Sovrane. L’autorità femminile
al governo, uscito per il Saggiatore, dove mostra il sesso femminile
come esempio eccellente di autorevolezza amorosa e di sapienza
imprevista e differente. «Bisogna dare sempre più spazio e voce a
donne sapienti — spiega —. Poi bisogna far studiare l’immenso
patrimonio di cultura scritta che ormai abbiamo prodotto. Bisogna
farlo studiare nelle scuole e nelle università (che seguono
bibliografie arretratissime e tutte maschili). Bisogna farlo studiare
ai formatori e alle formatrici. Oramai ci sono tutte le condizioni
per affermare l’autorità, la libertà, il pensiero delle donne. La
misoginia maschile è ben radicata e fa ancora ostacolo, ma la realtà
e la sua complessa trasformazione sono completamente favorevoli alla
nostra differenza».
Carol
Gilligan, prima accademica ad affermare il valore della differenza di
genere nell’etica, spiega con un esempio quale sia il potenziale di
trasformazione che nasce dall’incontro di due culture di leadership
diverse, quella maschile e quella femminile, senza che l’una debba
appiattirsi sull’altra: «Un bambino e una bambina stanno
negoziando il loro gioco, la bambina vorrebbe giocare a “vicini di
casa”, il bambino ai pirati. Una giusta soluzione sarebbe quella di
giocare ai pirati e poi ai vicini di casa per lo stesso lasso di
tempo. Ma la bambina ha un’altra soluzione e suggerisce di fare il
gioco in cui un vicino di casa è un pirata».
«Sono
una fanatica del dubbio, mi esercito tutti i giorni, appena alzata
dubito sempre almeno una buona mezz’ora», dice la Bambina
filosofica di Vanna Vinci. La piccola peste dei fumetti, con la sua
ironia da rompiscatole, ci viene in soccorso. Il «non so» è una
cifra femminile, tanto vale farci i conti fino in fondo.
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