domenica 11 gennaio 2015

Donne, sorelle senza confini intervista a Edit Schlaffer di Nina Weissensteiner

Questa intervista alla sociologa e scrittrice autriaca Edit Schlaffer è stata pubblicata da Der Standard, quotidiano austriaco, il 19 dicembre 2014, e tradotta da Maria G. Di Rienzo (giornalista e formatrice, autrice del blog lunanuvola). Schlaffer fa parte di Donne senza confini, organizzazione che ha creato “Sisters Against Violent Extremism / Sorelle contro l’estremismo violento – Save”, la prima piattaforma globale antiterrorismo basata sull’attivo coinvolgimento delle donne e soprattutto delle madri.
Come sociologa hai condotto interviste con centinaia di madri i cui figli sono caduti prede dell’estremismo. Che si tratti di Palestina, Pakistan, Irlanda del Nord o Austria: quali tratti comuni hai trovato?
Non abbiamo scoperto un profilo familiare comune. Abbiamo, però, trovato molti segni di allarme precoce. I figli spesso si rinchiudevano nelle loro stanze; i parenti venivano tenuti a distanza. I giovani uomini esaltati dai leader islamisti cominciavano ad indossare abiti wahabiti e le ragazze studiavano di vestirsi per nascondere le loro figure.
I seminari della Scuola delle Madri, tenuti dalla tua organizzazione Frauen ohne Grenzen – Donne senza confini, sono il primo sforzo internazionale che mostri come maneggiare efficacemente la confusione dei giovani e i tentativi esterni di convertirli all’estremismo. Ma i figli sono poi così disposti ad ascoltare le loro madri?
Nessun politico e nessun agente segreto è più vicino delle madri ai meccanismi del reclutamento. Le madri sono le più importanti testimoni, sebbene controvoglia e spaventate, di come il dissenso dei loro figli prenda la strada della radicalizzazione.
Ma una volta che i giovani siano stati convinti dai famosi video clip dell’IS, non è troppo tardi per l’intervento delle famiglie?
Non necessariamente. Tutte le madri di quelli che sono andati in Siria sono convinte che in momento dato avrebbero potuto intervenire se avessero avuto più fiducia in se stesse, più conoscenze e più sostegno. Le famiglie semplicemente non sono attrezzate per contrastare queste ideologie pericolose e tentare di farlo solo con reazioni emotive non funziona.
Intendi con sgridate e proibizione di visionare il materiale di propaganda dell’IS?
Il miglior approccio sarebbe per le madri il confrontarsi direttamente con i loro figli, chiedendo: “Dimmi, cosa stai vedendo?”. Questo aprirebbe la possibilità di un dialogo all’interno della famiglia. Nelle nostre Scuole delle Madri incoraggiamo le madri ad invitare a casa i nuovi “amici” dei figli. In Indonesia, per esempio, ho parlato con reclutatori che tentano di isolare i giovani dalle loro famiglie e fanno loro passare le notti nelle moschee. Quel che è certo è che i fondamentalismi sfruttano mancanze e fallimenti di ogni società in cui si trovano.
Quali sono le più grandi debolezze delle democrazie occidentali?
Qui in Occidente, i reclutatori fondamentalisti attirano persone giovani in cerca di identità, appartenenza, nonché “significato” nelle promesse del paradiso. In effetti IS offre tutto: lavoro, stima, cameratismo e inoltre si appella a fantasie del tipo “Robin Hood”.
Weissensteiner: Sino a che questi giovani mal guidati si ritrovano in una sanguinosa “crociata santa”?
Esattamente. Pure, nonostante il loro totale distacco da quel che dicevano prima (Ndt.: dell’arruolamento) rimane in loro un persistente attaccamento alle loro madri.
Weissensteiner: In che modo?
Una delle madri che ho intervistato ha ricevuto dal figlio di diciassette anni un messaggio di testo che diceva: siamo in cinque con una sola arma, stiamo per essere mandati al fronte, sono terrorizzato. Solo le madri vengono a conoscenza di tali paure. Queste madri devono essere mobilitate affinché passino il messaggio agli altri figli, ai vicini, agli amici. Il silenzio di chi è investito dalla questione dev’essere infranto, le loro voci devono poter raggiungere quelli e quelle per cui non è ancora troppo tardi.
Che tipi di messaggi mandano le figlie?
Nelle nostre conversazioni con le madri abbiamo appreso che le ragazze diventano incinte entro cinque/sei mesi e che soffrono di depressione perché si sentono sfruttate, come schiave lavoratrici e schiave sessuali. Molte mandano richieste di aiuto, dicendo che avranno la possibilità di fuggire quando gli uomini saranno al fronte. Sino ad ora, però, nessuna di queste richieste ha avuto seguito: è un seguito pericoloso, che richiede un vasto raggio di misure di sostegno.
I “combattenti stranieri” che ritornano sono tenuti sotto stretta sorveglianza. Ha senso rimpatriarli?
Le nazioni occidentali sembrano sopraffatte e adottano l’approccio sbagliato a queste situazioni, principalmente perché appoggiano parti direttamente coinvolte. Secondo la nostra recente ricerca (Ndt: si tratta di “Madri per il cambiamento”, Study Vienna 2014, di Edit Schlaffer e Ulrich Kropiunigg, sostenuto dal Fondo Austriaco per la Scienza), che ha esplorato il potenziale delle madri, oltre il 90 per cento delle madri si fidano di altri madri per la salvaguardia dei loro figli, poi degli insegnanti di questi ultimi. Sino ad ora, però, noi abbiamo lasciato che gli insegnanti se la sbrigassero da soli a maneggiare l’estremismo crescente. Questa non è solo un’opportunità perduta, è una bomba a tempo. Dobbiamo creare finalmente programmi di sostegno – una task force – in special modo finché le madri sono la prima linea di difesa e possono essere incoraggiate ad avvisare la polizia se hanno preoccupazioni rispetto ai loro figli. In ogni caso, solo il 39 per cento delle intervistate nel nostro studio si fidava della polizia e il 29 per cento dei propri governi. Questo è un deficit di sicurezza allarmante.
I governi stanno cominciando a fornire sostegno, come le linee telefoniche di aiuto e il chiedere alle comunità religiose islamiche di accettare le loro responsabilità nella lotta contro l’estremismo. Giusto?
Se si osserva come vanno le cose, i giovani sono reclutati così in fretta che non hanno neppure il tempo di studiare le “sura” del Corano. C’è la tendenza a coinvolgere leader religiosi, ma il problema è che gli estremisti rigettano i musulmani che non appoggiano le loro crociate radicali salafite. Perciò non è possibile lasciare la prevenzione interamente alle comunità religiose. Rispetto ai “telefoni amici”: devono diventare qualcosa di più di una “zia che ascolta l’agonia”. Sono necessari sforzi concreti sociali e comunitari.
I tuoi, di sforzi, sono stati presi più seriamente all’estero che qui in patria? (Ndt.: in Austria)
In Inghilterra abbiamo già stabilito una campagna di prevenzione della radicalizzazione che ha raggiunto migliaia di persone: dalle famiglie interessate o preoccupate dal fenomeno alle agenzie sociali, dalle moschee alle scuole. Per il progetto abbiamo prodotto un filmato in cui le madri di giovani estremisti prendono posizione. Ha un impatto enorme vedere la madre di uno dei pianificatori dell’attacco al World Trade Center che dice: “Non difendo mio figlio. Quel che ha fatto non ha nulla a che vedere con l’Islam”. Oppure quando la madre di un figlio che voleva far saltare in aria un complesso commerciale a Bristol dice: “Voglio mettere fine allo stigma dell’essere la madre di un terrorista e far conoscere alle altre madri i segni di allarme precoce che io ho mancato di cogliere”.
I governi chiedono i vostri pareri di esperte?
In effetti è il contrario: noi di “Donne senza confini” ci rivolgiamo ai governi e ci appelliamo alle autorità pubbliche affinché si coinvolga la società civile nelle attività relative a prevenzione e riabilitazione. Il nostro ministero austriaco per gli Affari Sociali ha già fatto partire un’iniziativa globale unica, qui a Vienna, per le madri i cui figli e le cui figlie sono partiti per la Siria: le madri si incontrate fra loro e con gli addetti alla sicurezza. Esaminando le esperienze personali di queste madri e rispondendo ad esse, noi troveremo un modo di risolvere l’enigma della radicalizzazione.




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