Avevamo bisogno,
dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è
Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da
difendere?
No, purtroppo. Pur
sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella
turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso,
e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo
stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata
mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi
a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la
sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche
decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive
nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che,
pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per
giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve
aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da
parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può
chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di
Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione
lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio
di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a
difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di
difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una
simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della
vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora
manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di
qualcosa di più sostanzioso?
Qui e ora, in attesa
di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e
femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un
angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono
simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto
esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che
racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un
gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha
conseguenze.
Nelle scuole in cui
vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta
la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo
schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come
‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla
necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei
guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio,
che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre,
della mia ragazza?
Clima da rissa, da
stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili
distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano
o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con
efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del
pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo
se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero
che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella?
Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e
pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri
cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e
fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine). Sono
atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si
debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di
aggressione. Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli
attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia,
scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio
della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare
quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo
terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le
persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi:
dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e
tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
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