Sull’orrore di
Parigi, la filosofa Luisa Muraro, fondatrice della Libreria delle
Donne di Milano, ha pubblicato queste righe sul sito della Libreria:
“I criminali che
il 7 gennaio hanno fatto strage nella pacifica redazione di un
settimanale satirico, non sono peggiori dei politici e militari che,
cent’anni fa, hanno voluto la prima guerra mondiale. Non ci sono
giustificazioni né per quelli né per questi.
La libertà
d’espressione è un bene prezioso che va difeso con tutto il
coraggio che abbiamo e i mezzi leciti di cui disponiamo. Per la
stessa ragione, il bene di esprimerci liberamente va usato senza
censure ma con la necessaria saggezza. Offendere i sentimenti
profondi di donne e uomini non per una libera trasformazione della
cultura ma solo per avere successo, come vendere più copie di un
libro o di un film, questo non è saggezza. Peggio ancora è servirsi
della libertà d’espressione per fomentare l’odio e la paura tra
culture diverse, quale che sia lo scopo”.
Breve scritto che mi
ha molto colpito.
Intanto perché
Charlie Hebdo, forse proprio a causa della ferocia della sua satira
che non risparmiava niente e nessuno, di copie ne vendeva di meno,
non di più. La rivista non navigava in buone acque, stava antipatica
a tanti, e la scelta di pubblicare le famose vignette su Maometto non
può in alcun modo essere ritenuta un’astuta strategia di
marketing, ma una libera e rischiosa scelta politica, pagata con il
sangue che sappiamo (e che anche loro sapevano e temevano, vista
l’ultima profetica vignetta del direttore Charbonnier, da anni
nella lista nera degli jihadisti insieme ad altri giornalisti e
artisti).
Su questa scelta si
può dissentire, ma deve trattarsi di dissenso politico, non
dell’accusa di voler fare audience.
Charlie Hebdo non
intendeva “fomentare l’odio” religioso: al contrario, l’intento
era quello di ridicolizzarne le ragioni e non piegarsi alle sue
logiche. Per scelte del genere Theo Van Gogh è morto, e un buon
numero di donne e uomini, da Ayaan Hirsi Ali a Irhasd Manji a Salman
Rushdie, musulmani, ebrei, cristiani e atei, vivono in esilio, sotto
fatwa e sotto scorta. Ogni giorno e per venti giorni, dopo essersi
fatto un bel po’ di galera, il blogger saudita Raif Badawi sta
ricevendo la sua umilante dose di 50 frustate in pubblico in mezzo a
centinaia di uomini festanti, perché ritenuto colpevole di avere
offeso l’Islam, mentre la sua famiglia è fuggita in Canada. A
nulla sono valsi gli appelli di Amnesty International e Reporters
sans Frontieres. Probabilmente il blogger saudita sarà un po’ più
famoso di prima, sì: ma che abbia scritto quello che ha scritto per
aumentare i clic, be’, credo proprio di no. L’avrà fatto, forse,
perché riteneva di difendere in questo modo la sua libertà e quella
di altre e altri.
Tutta gente poco
saggia? Giudizio che mi impressiona, visto il prezzo che questa
gente, suppongo dopo averci ben pensato, ha pagato e continua a
pagare di persona per le proprie scelte libere e senza dubbio un po’
pazzoidi. Ma senza un po’ di pazzia mi pare che il mondo non
sarebbe andato avanti, e neanche le donne avrebbero potuto rompere
ciò che c’era da rompere. E’ stata saggia la ragazza iraniana
incarcerata per aver voluto assistere a una partita di volley, in
violazione dei divieti? Sagge le donne di Kabul che vanno dai
parrucchieri clandestini, rischiando la pelle? Saggia Franca Viola,
che rifiutò di sposare il suo violentatore, offendendo l’onore?
Ma il giudizio mi
impressiona soprattutto per un’altra ragione: donne e uomini
raffigurati come pronti a scattare permalosamente e pavlovianamente a
fronte di provocazioni e offese, eventualmente lavabili con il
sangue. Qui sì vedo un “noi” e un “loro” che non condivido.
Quando penso ai musulmani, io non li penso così. Dato che ci vivo in
mezzo -non abito in area C – e sono i miei vicini di casa,
antipatici o simpatici come tutti, posso garantire che ne conosco di
poco spiritosi e anche di molto spiritosi e propensi all’autoironia.
Ho violentemente sbeffeggiato alcuni uomini sulla poligamia, sulle
fidanzate di Maometto e sulle famose vergini che li attendono per
deliziarli in eterno: a quanto pare sono ancora qui. Li offenderei di
più, credo, se li trattassi come dei retrogradi incapaci di humour.
Ho vissuto da
bambina e nello stesso quartiere il processo di integrazione degli
immigrati che da Sud venivano a lavorare nelle grandi fabbriche del
Nord: il film l’ho già visto. E io stessa sono per metà
un’immigrata di terza generazione. Ricordo personalmente gli
scherzi violenti di cui i “terroni” erano oggetto da parte dei
colleghi nordici. Cose tremende. Ricordo un certo Totò, calabrese,
che una sera reagì tirando fuori una pistola (l’offesa non posso
dirla, fu terribile). L’amicizia si fece più salda. Ricordo anche
un algerino –perfino il suo nome, anche se ero piccolissima, Bechir
Fattah- a cui a sua insaputa venne servito un bel piatto di maiale.
Credette di morire. Non morì. Burle feroci che quando ero piccola mi
spaventavano, ma che hanno velocizzato i processi, bruciando le
tappe, accelerando il metabolismo lento dell’integrazione fra
differenze. L’umorismo, la satira, lo scherzo, il gioco come
collanti universali.
Per questo mi spingo
a dire che non solo i pazzi anarcoidi di Charlie Hebdo non
intendevano affatto fomentare l’odio, ma anzi: che Charlie Hebdo a
suo modo sperava di dare una mano a stemperarlo. Probabilmente con
una qualche bislacca saggezza. Forse è proprio questo, la fine
dell’odio, che fa più paura ai foreign fighters in cerca di
adrenalina identitaria. Che si sentono insopportabilmente provocati,
loro sì, anche dai deliziosi latkes, dagli schnitzel, e dai giochi
dei bambini di un asilo ebraico, primo obiettivo mancato. Ma questo
è tutt’altro discorso.
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