giovedì 15 gennaio 2015

Charlie Hebdo non voleva fomentare l’odio, ma stemperarlo: risposta a Luisa Muraro


Sull’orrore di Parigi, la filosofa Luisa Muraro, fondatrice della Libreria delle Donne di Milano, ha pubblicato queste righe sul sito della Libreria:
“I criminali che il 7 gennaio hanno fatto strage nella pacifica redazione di un settimanale satirico, non sono peggiori dei politici e militari che, cent’anni fa, hanno voluto la prima guerra mondiale. Non ci sono giustificazioni né per quelli né per questi.
La libertà d’espressione è un bene prezioso che va difeso con tutto il coraggio che abbiamo e i mezzi leciti di cui disponiamo. Per la stessa ragione, il bene di esprimerci liberamente va usato senza censure ma con la necessaria saggezza. Offendere i sentimenti profondi di donne e uomini non per una libera trasformazione della cultura ma solo per avere successo, come vendere più copie di un libro o di un film, questo non è saggezza. Peggio ancora è servirsi della libertà d’espressione per fomentare l’odio e la paura tra culture diverse, quale che sia lo scopo”.
Breve scritto che mi ha molto colpito.
Intanto perché Charlie Hebdo, forse proprio a causa della ferocia della sua satira che non risparmiava niente e nessuno, di copie ne vendeva di meno, non di più. La rivista non navigava in buone acque, stava antipatica a tanti, e la scelta di pubblicare le famose vignette su Maometto non può in alcun modo essere ritenuta un’astuta strategia di marketing, ma una libera e rischiosa scelta politica, pagata con il sangue che sappiamo (e che anche loro sapevano e temevano, vista l’ultima profetica vignetta del direttore Charbonnier, da anni nella lista nera degli jihadisti insieme ad altri giornalisti e artisti).
Su questa scelta si può dissentire, ma deve trattarsi di dissenso politico, non dell’accusa di voler fare audience.
Charlie Hebdo non intendeva “fomentare l’odio” religioso: al contrario, l’intento era quello di ridicolizzarne le ragioni e non piegarsi alle sue logiche. Per scelte del genere Theo Van Gogh è morto, e un buon numero di donne e uomini, da Ayaan Hirsi Ali a Irhasd Manji a Salman Rushdie, musulmani, ebrei, cristiani e atei, vivono in esilio, sotto fatwa e sotto scorta. Ogni giorno e per venti giorni, dopo essersi fatto un bel po’ di galera, il blogger saudita Raif Badawi sta ricevendo la sua umilante dose di 50 frustate in pubblico in mezzo a centinaia di uomini festanti, perché ritenuto colpevole di avere offeso l’Islam, mentre la sua famiglia è fuggita in Canada. A nulla sono valsi gli appelli di Amnesty International e Reporters sans Frontieres. Probabilmente il blogger saudita sarà un po’ più famoso di prima, sì: ma che abbia scritto quello che ha scritto per aumentare i clic, be’, credo proprio di no. L’avrà fatto, forse, perché riteneva di difendere in questo modo la sua libertà e quella di altre e altri.
Tutta gente poco saggia? Giudizio che mi impressiona, visto il prezzo che questa gente, suppongo dopo averci ben pensato, ha pagato e continua a pagare di persona per le proprie scelte libere e senza dubbio un po’ pazzoidi. Ma senza un po’ di pazzia mi pare che il mondo non sarebbe andato avanti, e neanche le donne avrebbero potuto rompere ciò che c’era da rompere. E’ stata saggia la ragazza iraniana incarcerata per aver voluto assistere a una partita di volley, in violazione dei divieti? Sagge le donne di Kabul che vanno dai parrucchieri clandestini, rischiando la pelle? Saggia Franca Viola, che rifiutò di sposare il suo violentatore, offendendo l’onore?
Ma il giudizio mi impressiona soprattutto per un’altra ragione: donne e uomini raffigurati come pronti a scattare permalosamente e pavlovianamente a fronte di provocazioni e offese, eventualmente lavabili con il sangue. Qui sì vedo un “noi” e un “loro” che non condivido. Quando penso ai musulmani, io non li penso così. Dato che ci vivo in mezzo -non abito in area C – e sono i miei vicini di casa, antipatici o simpatici come tutti, posso garantire che ne conosco di poco spiritosi e anche di molto spiritosi e propensi all’autoironia. Ho violentemente sbeffeggiato alcuni uomini sulla poligamia, sulle fidanzate di Maometto e sulle famose vergini che li attendono per deliziarli in eterno: a quanto pare sono ancora qui. Li offenderei di più, credo, se li trattassi come dei retrogradi incapaci di humour.
Ho vissuto da bambina e nello stesso quartiere il processo di integrazione degli immigrati che da Sud venivano a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord: il film l’ho già visto. E io stessa sono per metà un’immigrata di terza generazione. Ricordo personalmente gli scherzi violenti di cui i “terroni” erano oggetto da parte dei colleghi nordici. Cose tremende. Ricordo un certo Totò, calabrese, che una sera reagì tirando fuori una pistola (l’offesa non posso dirla, fu terribile). L’amicizia si fece più salda. Ricordo anche un algerino –perfino il suo nome, anche se ero piccolissima, Bechir Fattah- a cui a sua insaputa venne servito un bel piatto di maiale. Credette di morire. Non morì. Burle feroci che quando ero piccola mi spaventavano, ma che hanno velocizzato i processi, bruciando le tappe, accelerando il metabolismo lento dell’integrazione fra differenze. L’umorismo, la satira, lo scherzo, il gioco come collanti universali.

Per questo mi spingo a dire che non solo i pazzi anarcoidi di Charlie Hebdo non intendevano affatto fomentare l’odio, ma anzi: che Charlie Hebdo a suo modo sperava di dare una mano a stemperarlo. Probabilmente con una qualche bislacca saggezza. Forse è proprio questo, la fine dell’odio, che fa più paura ai foreign fighters in cerca di adrenalina identitaria. Che si sentono insopportabilmente provocati, loro sì, anche dai deliziosi latkes, dagli schnitzel, e dai giochi dei bambini di un asilo ebraico, primo obiettivo mancato. Ma questo è tutt’altro discorso.

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