martedì 13 gennaio 2015

Quella donna velata e armata È il momento di interrogarci di Giorgia Serughetti

Abbiamo avuto davanti agli occhi per ore il suo sguardo dolce e tristissimo nella foto a viso scoperto riprodotta su ogni emittente nel giorno dei blitz della polizia. L’abbiamo osservata in immagini sgranate, diverse e contrastanti: in bikini su una spiaggia insieme al compagno Amedy Coulibaly, autore del sequestro di Porte de Vincennes; semi-nascosta da un pesante burqua mentre impugna minacciosa una pistola-balestra. Hayat “la convertita” non è solo la donna più ricercata di Francia (sparita dal territorio nazionale, forse riparata in Siria): è già diventata il simbolo delle paure più profonde di un’Europa in crisi che si specchia terrorizzata nel volto di una ragazza di 26 anni.
Di ciò che seguirà si intravvedono i segnali. C’è da immaginare che proprio sulle donne, sul loro corpo, si giocherà la partita tra i fautori dello scontro di civiltà e i difensori del pluralismo e della convivenza tra culture. E il fantasma delle convertite all’Islam, quale immagine della rinuncia a una libertà ritenuta “falsa” in favore di una sottomissione volontaria, è destinato tanto ad angosciare gli uomini “occidentali” preoccupati, sotto vesti più o meno democratiche, di perdere il controllo sulle “proprie” donne, quanto a complicare il dibattito interno al mondo femminile e femminista su libertà delle donne, religione, identità culturale. A maggior ragione quando la sfida raggiunge il grado di radicalità delle “spose della Jihad” di cui scrive Marta Serafini, ovvero quando il credo religioso si accompagna alla scelta di imbracciare le armi, di combattere sul fronte del terrore o di sostenerlo in altri ruoli.
Dopo la strage di Parigi e la vigorosa reazione della società francese ed europea, in cui si sono unite persone di ogni provenienza e credo, è oggi più che mai attuale riprendere – tra donne, tra donne e uomini – il filo di una riflessione non nuova ma rilanciata da alcune già prima del 7 gennaio. Marina Terragni, nel suo post del 6 gennaio significativamente intitolato Noi donne occidentali e la minaccia islamista alla libertà femminile criticava l’atteggiamento dialogante e tollerante, “ai confini con l’indifferenza” nei confronti dell’Islam fondamentalista, della sinistra e delle femministe “occidentali”, chiedendo alle donne di “rompere il silenzio tollerante-indifferente” ed esprimendo il bisogno di “parlarne con altre”. Un bisogno legittimo, una necessità a cui non si può né si deve sottrarsi, a patto però di sgombrare il campo da ambiguità e inesattezze che rischiano di inficiare qualunque ragionamento in quest’ambito, oltre a prestare il fianco a strumentalizzazione xenofobe e islamofobe.
Terragni contesta due argomenti forti che giocano a favore del dialogo con le donne musulmane e con l’Islam nel suo complesso: uno, quello per cui le pratiche tradizionali dannose per le donne e i costumi più brutali che le costringono alla soggezione o alla segregazione “non appartengono all’Islam”. Resta il fatto, dice, che “la grande parte dell’Islam non si oppone a quei costumi e anzi, a quanto pare, la cosiddetta islamizzazione va di pari passo con l’imposizione di quegli usi”. Il secondo è quello per cui “quelle donne scelgono liberamente di velarsi, di vivere segregate o altro”, e qui – replica Terragni – “l’ipocrisia è lampante”, perché “quelle donne scelgono di vivere, o almeno di sopravvivere”.
Il dibattito sulla libertà del velo e di altre forme di adesione a costumi religiosi tradizionali richiederebbe ben altra trattazione: esiste una letteratura sterminata ma si può cominciare da Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica (Carocci, 2012) o da Anna Maria Rivera, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità (Dedalo, 2005), che mostrano la complessità del tema e i rischi di ogni semplificazione ad uso politico.
Quanto all’Islam nel suo complesso, bisognerebbe avere altri titoli per discuterne. Certo è che i fatti di Francia hanno mostrato il desiderio di tanti, tantissimi fedeli musulmani di segnare la distanza tra la propria religione e questo tipo di fondamentalismo (spesso, giustamente, accompagnando queste dichiarazioni con una riflessione sulle cause vere di questo fenomeno, a cui il cosiddetto Occidente non è affatto estraneo). E altrettanto certo è che mettere sotto accusa l’Islam nel suo complesso, come religione e come cultura, rappresenta un pessimo inizio per chi intende aprire una discussione. Le tradizioni, le culture, non sono dei monoliti, contengono al loro interno una pluralità di voci e di forze, e – per usare le parole della filosofa Martha Nussbaum – “far coincidere la totalità di una cultura con elementi arcaici o ostili all’innovazione è spesso un trucco dell’imperialismo e dello sciovinismo”.
Dunque chi sono le donne con cui ci vogliamo confrontare? Chi è il “noi” in questo discorso, le “donne occidentali”? È molto difficile – e rischioso – immaginare un dialogo che non parta dal ripensamento del “noi” in questione, che non prenda atto di quanto molteplice e plurale sia de facto la società europea, di quanto vuoto possa suonare il richiamo a valori europei se non riletti in una chiave inclusiva delle differenze. E questo vale anche per le donne. Di questo dialogo devono far parte le tante donne e ragazze musulmane che vivono in Italia, in Europa, qualunque sia la loro provenienza, ma anche quelle che magari senza convertirsi sono sposate o convivono con uomini musulmani. Senza di loro, dove andiamo?
E inoltre, di cosa vogliamo parlare? Di libertà delle donne, certo. Ma cosa significa? A margine dello sconcerto per gli attentati, e della condanna che ognuna e ognuno di noi ha espresso, c’è l’angoscia che prende a leggere le biografie dei giovani attentatori e quella di Hayat Boumeddiene, storie che raccontano una disperata ricerca di senso e – a proposito di valori – di valore, al singolare. Di valore di sé. Raccontano i rischi di una generazione di ventenni e trentenni che non molto tempo fa, anche in Italia, un Presidente del Consiglio ebbe la sfrontatezza di definire “una generazione perduta”.

Hayat che ci guarda attraverso il velo integrale ci dice anche questo, ci dice quanta falsità può contenere il mito occidentale dell’emancipazione quando non fa i conti con le diseguaglianze sociali, con la precarietà delle vite e con la condizione di subalternità a cui continuano ad essere costrette le figlie, ma anche i figli, delle migrazioni. Una grande questione sociale, quindi, che si intreccia pericolosamente con i conflitti globali, i fondamentalismi, il neo-colonialismo e che rischia di esplodere – in forme imprevedibili e insopportabili – nelle periferie delle città di tutto il pianeta. Ecco, anche di questo è il momento di parlare.

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