Abbiamo avuto
davanti agli occhi per ore il suo sguardo dolce e tristissimo nella
foto a viso scoperto riprodotta su ogni emittente nel giorno dei
blitz della polizia. L’abbiamo osservata in immagini sgranate,
diverse e contrastanti: in bikini su una spiaggia insieme al compagno
Amedy Coulibaly, autore del sequestro di Porte de Vincennes;
semi-nascosta da un pesante burqua mentre impugna minacciosa una
pistola-balestra. Hayat “la convertita” non è solo la donna più
ricercata di Francia (sparita dal territorio nazionale, forse
riparata in Siria): è già diventata il simbolo delle paure più
profonde di un’Europa in crisi che si specchia terrorizzata nel
volto di una ragazza di 26 anni.
Di ciò che seguirà
si intravvedono i segnali. C’è da immaginare che proprio sulle
donne, sul loro corpo, si giocherà la partita tra i fautori dello
scontro di civiltà e i difensori del pluralismo e della convivenza
tra culture. E il fantasma delle convertite all’Islam, quale
immagine della rinuncia a una libertà ritenuta “falsa” in favore
di una sottomissione volontaria, è destinato tanto ad angosciare gli
uomini “occidentali” preoccupati, sotto vesti più o meno
democratiche, di perdere il controllo sulle “proprie” donne,
quanto a complicare il dibattito interno al mondo femminile e
femminista su libertà delle donne, religione, identità culturale. A
maggior ragione quando la sfida raggiunge il grado di radicalità
delle “spose della Jihad” di cui scrive Marta Serafini, ovvero
quando il credo religioso si accompagna alla scelta di imbracciare le
armi, di combattere sul fronte del terrore o di sostenerlo in altri
ruoli.
Dopo la strage di
Parigi e la vigorosa reazione della società francese ed europea, in
cui si sono unite persone di ogni provenienza e credo, è oggi più
che mai attuale riprendere – tra donne, tra donne e uomini – il
filo di una riflessione non nuova ma rilanciata da alcune già prima
del 7 gennaio. Marina Terragni, nel suo post del 6 gennaio
significativamente intitolato Noi donne occidentali e la minaccia
islamista alla libertà femminile criticava l’atteggiamento
dialogante e tollerante, “ai confini con l’indifferenza” nei
confronti dell’Islam fondamentalista, della sinistra e delle
femministe “occidentali”, chiedendo alle donne di “rompere il
silenzio tollerante-indifferente” ed esprimendo il bisogno di
“parlarne con altre”. Un bisogno legittimo, una necessità a cui
non si può né si deve sottrarsi, a patto però di sgombrare il
campo da ambiguità e inesattezze che rischiano di inficiare
qualunque ragionamento in quest’ambito, oltre a prestare il fianco
a strumentalizzazione xenofobe e islamofobe.
Terragni contesta
due argomenti forti che giocano a favore del dialogo con le donne
musulmane e con l’Islam nel suo complesso: uno, quello per cui le
pratiche tradizionali dannose per le donne e i costumi più brutali
che le costringono alla soggezione o alla segregazione “non
appartengono all’Islam”. Resta il fatto, dice, che “la grande
parte dell’Islam non si oppone a quei costumi e anzi, a quanto
pare, la cosiddetta islamizzazione va di pari passo con l’imposizione
di quegli usi”. Il secondo è quello per cui “quelle donne
scelgono liberamente di velarsi, di vivere segregate o altro”, e
qui – replica Terragni – “l’ipocrisia è lampante”, perché
“quelle donne scelgono di vivere, o almeno di sopravvivere”.
Il dibattito sulla
libertà del velo e di altre forme di adesione a costumi religiosi
tradizionali richiederebbe ben altra trattazione: esiste una
letteratura sterminata ma si può cominciare da Renata Pepicelli, Il
velo nell’Islam. Storia, politica, estetica (Carocci, 2012) o da
Anna Maria Rivera, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e
retoriche sull’alterità (Dedalo, 2005), che mostrano la
complessità del tema e i rischi di ogni semplificazione ad uso
politico.
Quanto all’Islam
nel suo complesso, bisognerebbe avere altri titoli per discuterne.
Certo è che i fatti di Francia hanno mostrato il desiderio di tanti,
tantissimi fedeli musulmani di segnare la distanza tra la propria religione e questo tipo di fondamentalismo (spesso, giustamente, accompagnando queste dichiarazioni con una riflessione sulle cause vere di questo fenomeno, a cui il cosiddetto Occidente non è affatto estraneo). E altrettanto certo è che mettere sotto accusa l’Islam nel suo complesso, come religione e come cultura, rappresenta un pessimo inizio per chi intende aprire una discussione. Le tradizioni, le culture, non sono dei monoliti, contengono al loro interno una pluralità di voci e di forze, e – per usare le parole della filosofa Martha Nussbaum – “far coincidere la totalità di una cultura con elementi arcaici o ostili all’innovazione è spesso un trucco dell’imperialismo e dello sciovinismo”.
Dunque chi sono le donne con cui ci vogliamo confrontare? Chi è il “noi” in questo discorso, le “donne occidentali”? È molto difficile – e rischioso – immaginare un dialogo che non parta dal ripensamento del “noi” in questione, che non prenda atto di quanto molteplice e plurale sia de facto la società europea, di quanto vuoto possa suonare il richiamo a valori europei se non riletti in una chiave inclusiva delle differenze. E questo vale anche per le donne. Di questo dialogo devono far parte le tante donne e ragazze musulmane che vivono in Italia, in Europa, qualunque sia la loro provenienza, ma anche quelle che magari senza convertirsi sono sposate o convivono con uomini musulmani. Senza di loro, dove andiamo?
E inoltre, di cosa vogliamo parlare? Di libertà delle donne, certo. Ma cosa significa? A margine dello sconcerto per gli attentati, e della condanna che ognuna e ognuno di noi ha espresso, c’è l’angoscia che prende a leggere le biografie dei giovani attentatori e quella di Hayat Boumeddiene, storie che raccontano una disperata ricerca di senso e – a proposito di valori – di valore, al singolare. Di valore di sé. Raccontano i rischi di una generazione di ventenni e trentenni che non molto tempo fa, anche in Italia, un Presidente del Consiglio ebbe la sfrontatezza di definire “una generazione perduta”.
Hayat che ci guarda attraverso il velo integrale ci dice anche questo, ci dice quanta falsità può contenere il mito occidentale dell’emancipazione quando non fa i conti con le diseguaglianze sociali, con la precarietà delle vite e con la condizione di subalternità a cui continuano ad essere costrette le figlie, ma anche i figli, delle migrazioni. Una grande questione sociale, quindi, che si intreccia pericolosamente con i conflitti globali, i fondamentalismi, il neo-colonialismo e che rischia di esplodere – in forme imprevedibili e insopportabili – nelle periferie delle città di
tutto il pianeta. Ecco, anche di questo è il momento di parlare.
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