domenica 25 gennaio 2015

L'ambasciatore inglese consegna 3 onorificenze a Rossana Banti, 90 anni, eroina della II Guerra Mondiale. «E che ho fatto? Eravamo ragazzi, pensavamo fosse giusto»

Rossana Banti ha 90 anni portati splendidamente e oggi lascerà la sua casa di Pitigliano per andare a Roma. Domani pomeriggio, con 70 anni di ritardo, l’ambasciatore britannico in Italia, Christopher Prentice, le appunterà tre medaglie che le erano state assegnate subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e che nessuno si era ricordato di consegnarle.
la signora Banti ci ride su, nel salotto che si affaccia sulle case medioevali di tufo di Pitigliano e sulle dolci colline della Maremma. «Mi sembra incredibile, dopo tanto tempo. Sono storie che ho quasi dimenticato, delle quali non parlo da anni, non mi aspettavo davvero una cosa del genere. Mi danno delle medaglie? E quali?».
Secondo i giornali inglesi saranno tre: la Italy Star, la Victory Medal e la War Medal 1939-1945, onorificenze assegnate a chi ha combattuto con onore contro i nazisti in Europa. «E che abbiamo fatto? Eravamo ragazzi, avevamo tutti vent’anni, pensavamo fosse la cosa giusta, l’unica che dovevamo fare. Non ha idea di quanto fossimo giovani».
Rossana aveva solo 18 anni quando alcuni amici le proposero a Roma di entrare nella Resistenza. C’era bisogno di ragazze che portassero messaggi, distribuissero volantini, tenessero i contatti con i gruppi clandestini. «Incontravo gente meravigliosa: Antonello Trombadori, Franco Rodano, Maurizio Ferrara e tanti altri che nemmeno mi presentavano, perché ero troppo giovane. Dovevo fare ”la coppietta”, andare in missione con qualcuno e fare finta di essere fidanzati per non destare sospetti. Si andava con mezzi di fortuna dai Parioli alla Nomentana e a Monte Sacro. Uno dei referenti era un macellaio, che aveva l’età di mio padre. Poi lo presero, lo portarono al forte Bravetta e lo fucilarono».
Spesso era necessario trasportare anche esplosivi. «Una volta facevo “la coppietta” con Maurizio Ferrara e avevamo un sacco di dinamite su un camion. Scherzavamo: “Attenta alle uova”, mi diceva a ogni sobbalzo, “attenta che scoppiano”». Rossana girava con un cappotto arancione di panno Casentino e presto i tedeschi si misero a cercare «la ragazza con il cappotto rosso», ormai vista in troppi luoghi e con troppi spasimanti.
Quando Roma venne finalmente liberata, insieme agli americani arrivarono anche gli inglesi. «Avevo 19 anni, cominciavo a guardarmi intorno per cercare un lavoro e per chi aveva aiutato la Resistenza era abbastanza facile trovarlo. Ma un amico che abitava nella stessa casa mi convinse che non era finita, la guerra continuava e c’era altro da fare. Era misterioso, parlava per enigmi e un giorno mi procurò un appuntamento in una villa sopra piazza Euclide. Era piena di ufficiali inglesi. Uno mi ricevette nel suo ufficio e mi disse due cose. La prima era che sarei potuta essere mandata ovunque senza sapere né dove né perché; la seconda che, poiché ero minorenne, avrei dovuto prima ottenere l’autorizzazione dei genitori».
Il padre di Rossana, l’ing. Antonio Banti, era un liberale antifascista dalla mente molto aperta e se la figlia voleva continuare la lotta contro i nazisti era libera di farlo. Come minimo, sarebbe stata un’esperienza formativa. Gli inglesi la portarono in segreto verso Sud. «Non capivo dove andavamo e solo all’arrivo intuii che doveva essere un posto tra Bari e Brindisi. C’erano baracche dovunque, una per le donne. Ero l’unica italiana tra centinaia di ragazze britanniche».
Rossana era finita tra le «FANY» della No 1 Special Force, il «First Aid Nursing Yeomanry» delle forze speciali, antenate del servizio segreto MI6. Grazie all’ottimo inglese imparato dalla bambinaia di casa Banti, Rossana era un elemento prezioso per tenere i contatti con la Resistenza italiana. Toccava a lei tradurre, trasmettere, annunciare dove sarebbero stati lanciati cibo, vestiti, munizioni, armi. «Ma la cosa più carica di emozione che feci in quella base - racconta - è stata l’assistenza ai volontari che sarebbero stati lanciati con il paracadute dietro le linee nemiche. Avevano tra i 17 e i 40 anni: andavano a fare operazioni di intelligence o a rinforzare i gruppi partigiani. Fino a poche ore prima della partenza non sapevano dove sarebbero stati portati. Era commovente, straziante: per loro ero una sorella, una madre, una fidanzata. Mi hanno trattato tutti con grande rispetto, nessuno ha mai alzato una mano. Molti piangevano, mi abbracciavano, e io controllavo l’equipaggiamento, dicevo: è tutto a posto, hai preso tutto, hai fatto la pipì? Come una mamma». Nella base, Rossana conobbe anche il suo futuro marito, Giuliano Mattioli, figlio di Raffaele, il grande economista e banchiere. Giuliano liberò Firenze e Bergamo con i partigiani. In divisa inglese era chiamato Julian Matthew.
E’ stato qualche mese fa a Palermo, a casa della figlia, che Rossana Banti ha raccontato per la prima volta nel dettaglio queste cose a una coppia di nuovi amici inglesi. Lui, un ex brigadiere generale dell’esercito, una volta tornato a Londra ha cercato nei registri militari se c’erano tracce di questa incredibile donna. E come se ce n’erano: tre medaglie ancora da consegnare, assegnate dal governo di Sua Maestà per lo straordinario comportamento di una ragazza di 19 anni, che li aveva aiutati con entusiasmo e dedizione a liberare l’Italia e l’Europa da Hitler.

 Che ne dice ora di quello per cui tanta gente ha lottato, ha rischiato la vita, è morta? Di questa Italia e di questa Europa? Era quello che s’immaginava? «Quando vedo in Europa che ci sono partiti che ancora si fregiano della svastica, che alzano il braccio nel saluto nazista, mi domando che cosa succede nelle scuole, e perché nessuno insegna più ai bambini i valori per i quali ci siamo battuti. E’ passato tanto tempo, si tende a dimenticare. Spero che questa mia storia sia utile, almeno per qualche giorno, a ricordare un poco».  

Nessun commento: