Rossana
Banti ha 90 anni portati splendidamente e oggi lascerà la sua casa
di Pitigliano per andare a Roma. Domani pomeriggio, con 70 anni di
ritardo, l’ambasciatore britannico in Italia, Christopher Prentice,
le appunterà tre medaglie che le erano state assegnate subito dopo
la fine della Seconda guerra mondiale, e che nessuno si era ricordato
di consegnarle.
la
signora Banti ci ride su, nel salotto che si affaccia sulle case
medioevali di tufo di Pitigliano e sulle dolci colline della Maremma.
«Mi sembra incredibile, dopo tanto tempo. Sono storie che ho quasi
dimenticato, delle quali non parlo da anni, non mi aspettavo davvero
una cosa del genere. Mi danno delle medaglie? E quali?».
Secondo i giornali inglesi saranno tre: la Italy Star, la Victory
Medal e la War Medal 1939-1945, onorificenze assegnate a chi ha
combattuto con onore contro i nazisti in Europa. «E che abbiamo
fatto? Eravamo ragazzi, avevamo tutti vent’anni, pensavamo fosse la
cosa giusta, l’unica che dovevamo fare. Non ha idea di quanto
fossimo giovani».
Rossana
aveva solo 18 anni quando alcuni amici le proposero a Roma di entrare
nella Resistenza. C’era bisogno di ragazze che portassero messaggi,
distribuissero volantini, tenessero i contatti con i gruppi
clandestini. «Incontravo gente meravigliosa: Antonello Trombadori,
Franco Rodano, Maurizio Ferrara e tanti altri che nemmeno mi
presentavano, perché ero troppo giovane. Dovevo fare ”la
coppietta”, andare in missione con qualcuno e fare finta di essere
fidanzati per non destare sospetti. Si andava con mezzi di fortuna
dai Parioli alla Nomentana e a Monte Sacro. Uno dei referenti era un
macellaio, che aveva l’età di mio padre. Poi lo presero, lo
portarono al forte Bravetta e lo fucilarono».
Spesso
era necessario trasportare anche esplosivi. «Una volta facevo “la
coppietta” con Maurizio Ferrara e avevamo un sacco di dinamite su
un camion. Scherzavamo: “Attenta alle uova”, mi diceva a ogni
sobbalzo, “attenta che scoppiano”». Rossana girava con un
cappotto arancione di panno Casentino e presto i tedeschi si misero a
cercare «la ragazza con il cappotto rosso», ormai vista in troppi
luoghi e con troppi spasimanti.
Quando
Roma venne finalmente liberata, insieme agli americani arrivarono
anche gli inglesi. «Avevo 19 anni, cominciavo a guardarmi intorno
per cercare un lavoro e per chi aveva aiutato la Resistenza era
abbastanza facile trovarlo. Ma un amico che abitava nella stessa casa
mi convinse che non era finita, la guerra continuava e c’era altro
da fare. Era misterioso, parlava per enigmi e un giorno mi procurò
un appuntamento in una villa sopra piazza Euclide. Era piena di
ufficiali inglesi. Uno mi ricevette nel suo ufficio e mi disse due
cose. La prima era che sarei potuta essere mandata ovunque senza
sapere né dove né perché; la seconda che, poiché ero minorenne,
avrei dovuto prima ottenere l’autorizzazione dei genitori».
Il
padre di Rossana, l’ing. Antonio Banti, era un liberale
antifascista dalla mente molto aperta e se la figlia voleva
continuare la lotta contro i nazisti era libera di farlo. Come
minimo, sarebbe stata un’esperienza formativa. Gli inglesi la
portarono in segreto verso Sud. «Non capivo dove andavamo e solo
all’arrivo intuii che doveva essere un posto tra Bari e Brindisi.
C’erano baracche dovunque, una per le donne. Ero l’unica italiana
tra centinaia di ragazze britanniche».
Rossana era finita tra le «FANY» della No 1 Special Force, il
«First Aid Nursing Yeomanry» delle forze speciali, antenate del
servizio segreto MI6. Grazie all’ottimo inglese imparato dalla
bambinaia di casa Banti, Rossana era un elemento prezioso per tenere
i contatti con la Resistenza italiana. Toccava a lei tradurre,
trasmettere, annunciare dove sarebbero stati lanciati cibo, vestiti,
munizioni, armi. «Ma la cosa più carica di emozione che feci in
quella base - racconta - è stata l’assistenza ai volontari che
sarebbero stati lanciati con il paracadute dietro le linee nemiche.
Avevano tra i 17 e i 40 anni: andavano a fare operazioni di
intelligence o a rinforzare i gruppi partigiani. Fino a poche ore
prima della partenza non sapevano dove sarebbero stati portati. Era
commovente, straziante: per loro ero una sorella, una madre, una
fidanzata. Mi hanno trattato tutti con grande rispetto, nessuno ha
mai alzato una mano. Molti piangevano, mi abbracciavano, e io
controllavo l’equipaggiamento, dicevo: è tutto a posto, hai preso
tutto, hai fatto la pipì? Come una mamma». Nella base, Rossana
conobbe anche il suo futuro marito, Giuliano Mattioli, figlio di
Raffaele, il grande economista e banchiere. Giuliano liberò Firenze
e Bergamo con i partigiani. In divisa inglese era chiamato Julian
Matthew.
E’
stato qualche mese fa a Palermo, a casa della figlia, che Rossana
Banti ha raccontato per la prima volta nel dettaglio queste cose a
una coppia di nuovi amici inglesi. Lui, un ex brigadiere generale
dell’esercito, una volta tornato a Londra ha cercato nei registri
militari se c’erano tracce di questa incredibile donna. E come se
ce n’erano: tre medaglie ancora da consegnare, assegnate dal
governo di Sua Maestà per lo straordinario comportamento di una
ragazza di 19 anni, che li aveva aiutati con entusiasmo e dedizione a
liberare l’Italia e l’Europa da Hitler.
Che
ne dice ora di quello per cui tanta gente ha lottato, ha rischiato la
vita, è morta? Di questa Italia e di questa Europa? Era quello che
s’immaginava? «Quando vedo in Europa che ci sono partiti che
ancora si fregiano della svastica, che alzano il braccio nel saluto
nazista, mi domando che cosa succede nelle scuole, e perché nessuno
insegna più ai bambini i valori per i quali ci siamo battuti. E’
passato tanto tempo, si tende a dimenticare. Spero che questa mia
storia sia utile, almeno per qualche giorno, a ricordare un poco».
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